Le recensioni di Bruno Elpis
Buchi di Ugo Cornia (qlibri)
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Tutte le cose partono a razzo
Dai cassetti di mobili vecchi può fuoriuscire il passato.
E nell’appartamento di città ove si è abitato per cinquant’anni, così come nella casa sull’Appennino emiliano ove affondano le radici di una famiglia, continuano a vivere i fantasmi di genitori e parenti (“E il grosso dei fantasmi, pensavo ogni tanto per tirarmi su il morale, è sempre stato a Guzzano”) che ormai se ne sono andati (“6 luglio ’70, con nonno, robusto e svelto di riflessi, settantadue anni… 6 luglio ’71 senza più nonno…”).
Lo sostiene Ugo Cornia che, nei Buchi del suo romanzo racconta il ciclo della vita attraverso ricordi e divagazioni che si avvicendano in ordine casuale secondo il libero flusso dei pensieri sciolti.
L’intonazione ironica e stranita della narrazione consente di proporre in modo sostenibile i dolori dell’abbandono (“Finito? Boh. Finito dove Smantellare ancora…”): dei genitori, dei luoghi cari, degli oggetti che sono testimonianze di una vita vissuta anche nell’ordinarietà e nella semplicità (“In uno di questi attacchi di furia… sposta sta famosa angoliera delle Nannini, e sotto, in fondo in fondo, contro il muro ci saranno state ottanta di ste gambe di pollo”).
La prima verità di Simona Vinci (i-libri)
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Può essere doloroso mettere a nudo “La prima verità”.
Come dimostra Simona Vinci, il tema è proprio complicato: perché la pazzia è una malattia difficile da affrontare, non soltanto dal punto di vista scientifico e clinico, ma anche e soprattutto in chiave personale o sotto il profilo familiare e sociale.
Nel recente passato si sono alternati diversi approcci terapeutici al male invisibile. Nel suo romanzo Simona Vinci illustra le due fasi principali: l’epoca dei manicomi, spesso lager mistificati sotto il nomen di ospedale; la fase successiva alla legge Basaglia. Ne consegue una storia che non disdegna di rappresentare gli aspetti scabrosi, gli atteggiamenti crudeli dei consimili più fortunati, i risvolti violenti che sfidano la sostenibilità del lettore.
Così è per Angela (“Suo fratello invece aveva una malattia genetica rarissima che si chiamava sindrome du cri du chat, la sindrome del grido del gatto”), così è per Lina, figlia di un poeta greco dissidente: due giovani donne che nel 1992 partono come volontarie per Leros (Parte prima – L’archivio delle anime: “Era partita per l’isola di Leros al seguito di un gruppo di operatori psichiatrici triestini che avrebbe lavorato alla deistituzionalizzazione dell’ospedale”), l’isola (“In quel posto e in quel momento, qualsiasi cosa poteva accadere: anzi, era già accaduta”) nella quale il regime dei colonnelli – la dittatura che oppresse la Grecia dal 1967 al 1974 – cerca di confinare la vergogna sociale di una malattia che il più delle volte veniva affrontata con la tecnica della negazione, della repressione, del nascondimento.
La teologia del cinghiale di Gesuino Némus (i-libri)
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“La teologia del cinghiale” diGesuino Némus, premio Campiello 2016 opera prima, è ambientata nel 1969 (“Quel luglio del ’69 era dantesco e il maestrale cambiava in scirocco ogni notte”) in un paesino dell’Ogliastra (“Totale: 62 reati gravi, suicidi compresi. Colpevoli trovati: 0, suicidi a parte. Sospettati: 2.873. A parte don Cossu, praticamente tutto il paese di Telévras”).
Qui un originale parroco, il gesuita Don Cossu (“Avendo confessato in passato i più grandi latitanti, don Cossu all’omertà era tenuto per vincolo professionale…”), ha accolto sotto la sua ala protettiva due dodicenni: Matteo Trudino e il narratore, Gesuino Némus.
Entrambi i ragazzini si caratterizzano per qualità particolari.
Matteo è geniale, intelligente (“Mi diceva a memoria… i nomi di tutti i diavoli presenti sulla terra: erano 333, sottodiavoli compresi”), musicalmente dotato, leonardesco (“A dodici anni era, in ordine d’apparizione: organista, capochierichetto…” e via una serie di incarichi, attribuzioni e abilità).
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Il prato in fondo al mare di Stanislao Nievo (qlibri)
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L’uomo era bruno, silenzioso e soave
Con “Il prato in fondo al mare”, Stanislao Nievo, nipote di Ippolito, vinse il premio Campiello nel 1975.
In questo romanzo Stanislao s’interroga sulla sorte dell’illustre antenato (“L’uomo era bruno, silenzioso e soave”), che perse la vita a soli ventinove anni durante il naufragio dell’Ercole, il vascello che doveva riportare a Genova l’autore delle “Confessioni di un italiano” con gli ultimi garibaldini rimasti in Sicilia dopo la spedizione dei Mille.
L’indagine personale che il nipote conduce (“Ha preso avvio cento anni dopo la scomparsa dell’Ercole, la nuova indagine”) esplora le possibili cause del misterioso inabissarsi del naviglio: “Sette tesi diverse. Non una coincideva con le altre… Una vera idra dalle sette teste, un’altra fatica d’Ercole in questa storia piena di analogie e di abbagli”.
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