Le recensioni di Bruno Elpis
La prima verità di Simona Vinci (i-libri)
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- Scritto da Bruno Elpis
Può essere doloroso mettere a nudo “La prima verità”.
Come dimostra Simona Vinci, il tema è proprio complicato: perché la pazzia è una malattia difficile da affrontare, non soltanto dal punto di vista scientifico e clinico, ma anche e soprattutto in chiave personale o sotto il profilo familiare e sociale.
Nel recente passato si sono alternati diversi approcci terapeutici al male invisibile. Nel suo romanzo Simona Vinci illustra le due fasi principali: l’epoca dei manicomi, spesso lager mistificati sotto il nomen di ospedale; la fase successiva alla legge Basaglia. Ne consegue una storia che non disdegna di rappresentare gli aspetti scabrosi, gli atteggiamenti crudeli dei consimili più fortunati, i risvolti violenti che sfidano la sostenibilità del lettore.
Così è per Angela (“Suo fratello invece aveva una malattia genetica rarissima che si chiamava sindrome du cri du chat, la sindrome del grido del gatto”), così è per Lina, figlia di un poeta greco dissidente: due giovani donne che nel 1992 partono come volontarie per Leros (Parte prima – L’archivio delle anime: “Era partita per l’isola di Leros al seguito di un gruppo di operatori psichiatrici triestini che avrebbe lavorato alla deistituzionalizzazione dell’ospedale”), l’isola (“In quel posto e in quel momento, qualsiasi cosa poteva accadere: anzi, era già accaduta”) nella quale il regime dei colonnelli – la dittatura che oppresse la Grecia dal 1967 al 1974 – cerca di confinare la vergogna sociale di una malattia che il più delle volte veniva affrontata con la tecnica della negazione, della repressione, del nascondimento.
Lì le due donne conoscono inadeguatezze assistenziali (“Il personale dell’istituto era composto da due psichiatri e una considerevole quantità di «infermieri» per 1.153 pazienti. Quasi nessuno di quegli infermieri però era diplomato”), orrori, pratiche infami (“La pesca, la chiamiamo qui”) ed eccessi di disumanità (“Sono quelli che noi chiamiamo gli ingovernabili. I peggiori elementi dell’istituto”) che non escludono neppure i bambini (“Erano centottanta i bambini con ogni genere di handicap fisico e mentale… Si domandò se tra quei bambini ci fossero anche i frutti di amori proibiti tra internati, oppure se qualcuno di loro fosse stato generato dagli stupri dei guardiani…”).
Così è anche per il poeta Stefanos, prigioniero nel 1968 in una struttura confinante con il manicomio ove la dittatura ellenica confinava e segregava chi si opponeva al regime e si macchiava del turpe reato d’opinione. Lì Stefanos intreccia la conoscenza con Teresa, una donna devastata dalla violenza, e con il bimbo “dal sasso in bocca”, Nikolaos alias Temistocles B. 841, che nel silenzio inabissa il suo disagio. Lì i tre infelici conosceranno le violenze inaudite che si consumano nella baracca (Parte seconda – Su nel posto segreto).
Angela decide di tornare a Leros nel 2009 (“Per più di quindici anni aveva custodito con sé il sasso con il disegno della maternità, i biglietti di Stefanos e tutte le poesie che aveva ritrovato dentro la bottiglia sepolta in cima alla montagna di Skoumbarda”): ha un debito con il passato, ha un debito con se stessa (“Pensò a Lina. Lina era tornata a Roma senza aver scoperto la vera storia di suo padre”. Parte terza – Sono ancora tutti lì), ha un debito con l’ex bimbo “dal sasso in bocca” (“Un segreto militare in mano a un bambino di otto anni quanta strada potrebbe mai fare dentro il manicomio di un’isola piantata in mezzo al mare?”).
Nell’ultima parte (Parte quarta – Non ti scordar di me) il romanzo assume i toni del saggio. La narratrice rievoca l’infanzia e l’adolescenza vissute a Budrio. Lì, dopo la legge Basaglia (“Nel 1978… fu quello l’anno nel quale venne promulgata la legge Basaglia, l’anno nel quale in Italia ai matti veniva consentito, per così dire legalmente, di ricominciare a circolare per le strade”) e con la nuova impostazione sanitaria non era infrequente incontrare gli ex pazienti dei due manicomi smantellati (“A Budrio… c’erano due istituti psichiatrici: Il San Gaetano… e Villa Donnini…”): ci si imbatteva nelle loro storie ed era l’occasione per riflettere sul disagio e sulla sua pervasività, per incontrare nell’altro (“Il suo vomito, Elena, lo faceva mangiare agli altri”) la propria follia (“Tra tutti gli uomini dei quali mi poteva capitare d’innamorarmi, naturalmente scelsi un pazzo”)…
Nonostante io abbia trovato questo romanzo troppo insistente, troppo crudo e troppo esplicito, devo riconoscere che la storia analizza una tragedia personale e collettiva con la quale non possiamo non misurarci (“A guardare ogni vita da vicino e con la dovuta attenzione, mi resi conto che si trovano le tracce, più o meno evidenti…. di depressioni, problemi dell’alimentazione, manie suicide, paranoie, nevrosi, disturbi della personalità e qualsiasi declinazione possa assumere la malattia mentale”). Anche oggi (“Tutti questi… per i quali un trattamento sanitario obbligatorio non è indicato… per loro c’è il salvagente della chimica”). Nella certezza che il sistema vigente ante legge Basaglia – cercare di isolare e internare il malessere in una struttura della quale possibilmente gettare la chiave – è sicuramente il modo peggiore per affrontare patologie e sofferenze così profonde da sfuggire a quella stessa mente che, in alcuni casi, decide di sprofondare nell’insondabile.
Bruno Elpis