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Le recensioni di Bruno Elpis

La teologia del cinghiale di Gesuino Némus (i-libri)

“La teologia del cinghiale” diGesuino Némus, premio Campiello 2016 opera prima, è ambientata nel 1969 (“Quel luglio del ’69 era dantesco e il maestrale cambiava in scirocco ogni notte”) in un paesino dell’Ogliastra (“Totale: 62 reati gravi, suicidi compresi. Colpevoli trovati: 0, suicidi a parte. Sospettati: 2.873. A parte don Cossu, praticamente tutto il paese di Telévras”). 

Qui un originale parroco, il gesuita Don Cossu (“Avendo confessato in passato i più grandi latitanti, don Cossu all’omertà era tenuto per vincolo professionale…”), ha accolto sotto la sua ala protettiva due dodicenni: Matteo Trudino e il narratore, Gesuino Némus. 

Entrambi i ragazzini si caratterizzano per qualità particolari.
Matteo è geniale, intelligente (“Mi diceva a memoria… i nomi di tutti i diavoli presenti sulla terra: erano 333, sottodiavoli compresi”), musicalmente dotato, leonardesco (“A dodici anni era, in ordine d’apparizione: organista, capochierichetto…” e via una serie di incarichi, attribuzioni e abilità).

Gesuino è introverso (“Io ero aspirante chierichetto semplice di seconda fila e lui il mio superiore gerarchico, come aveva stabilito Cossu don Egisto”), soffre di una strana patologia, ma già denota abilità letterarie (“Gli dissi che avrei scritto un libro un bel libro con il titolone grande grande e glielo avrei dedicato…”). 

I due bambini sono stati allontanati da un ambiente familiare difficile.
Matteo è figlio di un latitante, Bachisio Trudinu.
Gesuino è orfano (“Ero nato lì. Proprio su quelle montagne. Da un padre sconosciuto e da una madre che era morta di parto”), forse.
Nel loro nome (“Némus… vuol dire Nessuno… non è da tutti chiamarsi così, come il piccolo Gesù e come Ulisse nello stesso tempo”), forse, sta scritto il destino (“Nomen omen… Prendi il mio cognome, Gesui’. Vuol dire piccolo tordo e quella fine farò”). 

Tra i due ragazzi si instaura un’amicizia forte, simbiotica, complice (“L’occhio di Polifemo con Matteo mi veniva perfetto”).
Quando Matteo viene doppiamente colpito dalla sorte, Gesuino lo aiuta a fuggire, a nascondersi (“E mi insegnava, mi insegnava, mi insegnava… E allora io gli insegnai, senza volerlo fare, la cosa più bella: a nascondersi”)… 

Don Cossu ha una netta preferenza per la genialità di Matteo (“Gesuiti o salesiani?”) e, forse per questo, male interpreta gli eventi. 

Il romanzo è un bell’affresco dell’entroterra sardo degli anni sessanta e scolpisce una ricca gamma di personaggi: De Stefani, il maresciallo dei carabinieri ivi giunto da Torino (“Per loro noi puzziamo di pecora e per noi loro sono tonti…”), il veterinario che svolge anche il ruolo di medico e di anatomopatologo, il latitante che tutti sanno dove si trova, il matto del villaggio (“E fu così che Antoni Esulogu si candidò a essere contemporaneamente indiziato, sospettato, testimone, occultatore di cadaveri…”)… 

La narrazione è coinvolgente, condotta da diversi punti di vista: quello dello scrittore in erba (“Vi fa una tenerezza infinita quello scrittore bambino, che scrive libri di una pagina”), quello del cronista inviato in Sardegna, che poi diventa psicoterapeuta, quello fantasioso di un gipeto che dall’alto osserva tutto e racconta i fatti (“Essere gipeti è bellissimo. Altrettanto, anche se un po’ meno, esser cuccioli di cinghiale”), quella di don Cossu che tiene un diario intitolato “La teologia del cinghiale”. 

Bruno Elpis 

http://www.i-libri.com/libri/la-teologia-del-cinghiale/