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Le recensioni di Bruno Elpis

A sangue freddo di Truman Capote (qlibri)

coverCome colpire dei bersagli a un tiro a segno 

“A sangue freddo” di Truman Capote è il progenitore del romanzo non fiction: ripercorre in modo analitico e dettagliato un caso di cronaca dinnanzi al quale il mondo inorridì nel novembre del 1959, quando due balordi sterminarono un’intera famiglia –  i Clutter - a Holcomb, Kansas. 

Gli ambienti familiari e le atmosfere cittadine vengono radiografati con dovizia di particolari e descrizioni. La strage viene ricostruita attraverso le confessioni dei due omicidi, senza troppo indugiare sui particolari macabri.
La storia vive delle tensioni: tra efferatezza del delitto e fatuità del movente; tra la purezza cristallina delle vittime e l’atrocità malata dei carnefici; tra le differenti fisionomie dei criminali. Perry (“I doni di sua madre erano evidenti; meno lo erano quelli del padre, un irlandese lentigginoso…”) è vittima di un disastro famigliare ed educativo, ha un profilo criminale (“Si convinse che Perry era… un assassino nato… capace… di ammazzare con il massimo sangue freddo”) e distorsioni che non lo esentano da una sensibilità particolare nella quale lo stesso Capote s’identifica; Dick è cinico e superficiale, forse risente di un incidente che ha alterato il suo equilibrio psico-fisico (“La contrazione muscolare del sorriso restituiva quel volto alle giuste proporzioni…”)… vero è che anche il caso agisce da detonatore (“Se non avesse mancato Willy-Jay… non sarebbe stato lì davanti a un ospedale ad aspettare che Dick ne uscisse con un paio di calze nere”). 

Nell’ultima sezione del romanzo (L’angolo), quella nella quale i due rei (“L’unica seria discrepanza era che Hickock attribuiva tutte e  quattro le uccisioni a Smith”) attendono l’esecuzione della sentenza del giudice Tate, la costruzione narrativa di Truman Capote induce il lettore a interrogarsi su temi estremi: la natura umana può essere malvagia in sé o anche il delitto più atroce ha una causa sociale o psicologica? Siamo proprio sicuri che la pena di morte – una condanna che trova la sua ragione essenzialmente nella vendetta – sia il doveroso contrappasso al quale sottoporre chi ha agito con crudeltà?

Tra l’altro, proprio in questa parte viene sviluppato un interessante affondo sui temi della psicologia criminale (“Tre dei delitti di Smith erano logicamente motivati… ma è opinione del dottor Satten che solo il primo assassinio abbia un’importanza psicologica…”) in un sistema giudiziario sbrigativo, come quello americano, nel quale all’epoca si contrapponevano due principi ispiratori: “La legge M’Naghten… non riconosce alcuna forma d’infermità mentale quando l’imputato ha la capacità di discernere il bene dal male… La Legge Durham, per la quale semplicemente un accusato non è criminalmente responsabile se il suo atto illegale è il prodotto di un difetto o di una malattia mentale… Il giudice… si attenne alla Legge M’Naghten e la giuria concesse all’accusa la pena di morte richiesta.” 

Bruno Elpis 

http://www.qlibri.it/recensioni/romanzi-narrativa-straniera/discussions/review/id:55277