Le recensioni di Bruno Elpis
La morte a Venezia di Thomas Mann (qlibri)
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Decadentismo assoluto. A Venezia.
Spesso, anche gli animali – quando avvertono che la fine è arrivata - scelgono un luogo ideale o accogliente ove ricongiungersi alla madre terra.
Forse vittima di questo medesimo istinto (a me piace immaginare che sia così) lo scrittore tedesco Gustav Aschenbach si reca nella città che interpreta – nella straordinaria concomitanza di bradisismi e maree – un assolo di amore, morte, arte e bellezza.
Perché su Venezia sembra incombere un’oscura pestilenza, forse taciuta dalle autorità cittadine.
Il fascino della città si incarna nella bellezza efebica di Tadzio, un ragazzo polacco che lo scrittore intravede sul Lido. Il giovane impersona i canoni fidiaci dell’armonia e della proporzione.
Il sosia di Dostoevskij
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Il doppio secondo la prospettiva Nevskij
Jakov Petrovic’ Goljadkin è consigliere. Lavora al dipartimento e conduce una vita da burocrate, troppo seria e timorata. Al punto che gli si consiglia di “non evitare la vita allegra; frequentare gli spettacoli e il club e in ogni caso non essere nemico della bottiglia. Non vi giova restarvene in casa…”. Tutto ciò fino a che, dopo una delusione d’amore, s’imbatte … in se stesso. In una fase della vita nella quale si rende conto che “non soltanto anelava a fuggire da se medesimo, ma addirittura ad annientarsi, a non esistere più, a polverizzarsi”. In una Pietroburgo ove “il vento urlava nelle strade desolate, sollevando al di sopra delle catene del ponte l’acqua scura della Fontanka e sfiorando minaccioso i sottili lampioni del lungofiume, che a loro volta rispondevano ai suoi ululati con scricchiolii acuti e penetranti…”
La ciociara di Alberto Moravia (qlibri)
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Testimonianza di Gianna Cimino, nipote dello scrittore
Su “La ciociara” Angelo Favaro mi ha fornito in esclusiva una splendida testimonianza proveniente dalla nipote di Alberto Moravia e riferita a “La ciociara a Fondi”, il convegno in programma il 10 maggio. Qui ripropongo la dichiarazione di Gianna Cimino sul rapporto tra romanzo e film che ne fu tratto:
“Sono felice che a Fondi, ormai per la terza volta, si possa tornare a parlare di questo romanzo che dovrebbe diventare un classico da leggere e studiare in tutte le scuole superiori italiane.
Del film di De Sica e Zavattini (ndr: lo zio) non ne parlava mai, non ne aveva mai nemmeno scritto nulla. Che dire? Forse non gli era piaciuto, forse gli era piaciuto soltanto in parte. Di ciò che non gli piaceva e non gli interessava non scriveva, non amava dire male di qualcosa o di qualcuno. Faceva soltanto critiche che fossero costruttive, ma dal momento che un film una volta che è stato girato è stato girato, e non si torna indietro, è inutile farne critiche negative o distruttive.
La fattoria degli animali di G. Orwell (qlibri)
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Siamo sicuri che sia soltanto un'allegoria?
Sin dai tempi di Esopo, gli animali sono stati assunti per rappresentare le vicende umane. “La fattoria degli animali” di Orwell è una fiaba che comunemente viene intesa come allegoria della riuscita iniziale (“Nessuno rubava, nessuno mormorava sulla propria razione”), del graduale deterioramento e del definitivo fallimento della rivoluzione sovietica.
Gli animali, esasperati dalla condizione di sfruttamento e umiliazione nella quale vivono, si ribellano e instaurano un nuovo corso di autogestione, cacciando l’uomo (il signor Jones) dalla fattoria. Quasi subito, tuttavia, si afferma una nuova classe di burocrati: i maiali, gli animali noti per la loro intelligenza, che impongono progressivamente una nuova forma di tirannide. E un nuovo principio: “Tutti gli animali sono eguali, ma alcuni animali sono più eguali degli altri”.
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