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Le recensioni di Bruno Elpis

Storie di ordinaria follia di Charles Bukowski (i-libri)

coverLe “Storie di ordinaria follia” diCharles Bukowski possono essere idealmente classificate in cinque categorie, tutte designate dalla lettera E di ego (da “Quattro chiacchiere in pace”: “ecco UNA COSA che non va con gl’intellettuali e gli scrittori: sono sensibili solo alle loro gioie e ai loro dolori. Il che è normale ma schifoso”):
-      Erotici (o presunti tali)
-      Equestri
-      Estetici
-      Egoriferiti (o, più semplicemente, autobiografici)
-      Extra-surreali 

Al primo gruppo appartengono le storie nelle quali Charles declina il proprio machismo (“Tre donne”) in una concezione materialistica del sesso che vede nella donna (sempre designata dal pronome “essa”) lo strumento di un piacere meccanico, da perseguire a ogni costo. Anche attraverso uno scambio d’identità (Ne “Il giorno in cui parlammo di James Thurber”, si finge il poeta francese André per conquistare le grazie di una ragazza e, in qualche modo, del suo compagno) o ricorrendo alla “Violenza carnale” (“la seguii. Non si volse mai indietro… Essa, sempre più bona”). 

Sono “equestri” alcuni deliranti racconti ambientati all’ippodromo (come “Cavalli, mica cavoli”), tempio nel quale convergono le velleità economiche (“mi resi conto ch’è molto, molto difficile campare sulle corse…”) e la natura azzardata (“Lo scommettitore è un misto di estrema presunzione, pazzia e avidità”) del poeta americano, che dispensa consigli ai suoi lettori (“domandatelo agli agenti di borsa: muoversi… sempre in senso contrario a quello in cui si muove il parco buoi…”). 

I racconti “estetici” – si fa per dire - sono quelli nei quali il Buk decanta la propria concezione poetica (“La poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ci mette un bel po’”) che assume l’alcol come agente disinibitore (“se non sono sbronzo, non ho niente da dire”) dello spirito artistico (“E c’era droga a stufo… Era un fatto d’Arte… Non mancava manco il vino, né il whiskey, né la birra: per gente superata come me, che ancora fumava tabacco, come in passato, stupidamente”). In una sintesi trasversale rispetto alla cultura hippie (“Ho ucciso un uomo a Reno”: “scrivi sempre… per quel giornale hippie?”) e all’esperimento underground (“Nascita, vita e morte di un giornale underground”), con premature incursioni nel punk (si veda l’autolesionista protagonista del primo racconto, “La più bella donna della città”) e con uno sguardo al detto “pecunia non olet” (In “Dodici scimmie volanti che non volevano fornicare come si deve”, l’autore si propone di scrivere un racconto per far cassa, ma si scontra con un’empasse creativa, che ha conseguenze funeste sul racconto partorito). 

I paragrafi “egoriferiti” (autobiografici) consentono di intravedere episodi ed eventi della vita di Bukowski: l’instabilità lavorativa (“Kid polvere di stelle”), la renitenza alla leva (“In galera col nemico pubblico n. 1”: “cos’avrò fatto mai, e l’unica era che avessi ammazzato qualcuno mentre ero ubriaco”), il ricovero in ospedale (“Vita e morte all’ospedale dei poveri”), qualche arresto per ebbrezza, un pensiero per la figlia (“A San Francisco, una bambina di cinque anni c’era mia figlia, l’unica cosa al mondo che io amassi, e che aveva bisogno di me: di scarpe e vestitini e da mangiare e lettere e qualche giocattolo e una visita ogni tanto”)… Fino all’esperienza di celebrità letteraria (“Il mio soggiorno al villino del poeta”) ospite dell’università (“altro che poeta in residenza! Beone in residenza sarebbe stato più appropriato…”) ove il Buk non tiene certamente lezioni classiche (“ogni giorno mi scolavo quattro o cinque confezioni da sei bottiglie”). 

Nei racconti “extra-surreali” potrebbero forse confluire gli spunti creativi più interessanti, non fosse che anche queste storie sono sempre infestate da ossessioni sessuali – come  “La macchina da fottere”, la necrofilia di “Una sirena scopereccia” (“Dico, freghiamo un morto e via, tanto per ridere”), la zoofilia di “Animali in libertà” (“Era intollerabile, Uomo e Superuomo, Superuomo e Superbestia. Era del tutto impossibile. E mi guardava, guardava me, suo padre, uno dei suoi padri, uno dei tanti e tanti padri…”) - che finiscono per menomare lo slancio immaginifico a metà strada tra il delirium tremens e l’incubo. In questo ambito si può collocare anche “Sei pollici”, storia di una regressione fisica con ritorno alla normalità, che riproduce le mutazioni di “Alice nel paese delle meraviglie”. 

Con questa classificazione so di aver compiuto un atto che Bukowski non approverebbe. Lo dimostra anche il suo stile (“scrivo un paio di righe noncemale”), libero dalle regole ortografiche e sintattiche.

E allora cedo a lui l’ultima parola:
Bukowski pianse quando Judy Garland cantò al Philarmonic di N.Y… Bukowski ha pianto in squallidi albergucci; Bukowski non sa vestire, Bukowski non sa parlare, Bukowski ha paura delle donne, Bukowski ha lo stomaco in cattivo arnese, Bukowski è pieno di terrori, odia i vocabolari, le monache, gli autobus, le chiese, le panchine del parco, i ragni, le mosche…
E chiudo con un suo aforisma: “il codardo è uno che prevede il futuro. Il coraggioso è privo d’ogni immaginazione”. 

Bruno Elpis 

http://www.i-libri.com/libri/storie-ordinaria-follia/