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Le recensioni di Bruno Elpis

Il sogno di una cosa di Pier Paolo Pasolini (i-libri)

cover1945: Uomini e no di Vittorini.
1947: Il compagno di Pavese.
Stesso anno, il 1947: Calvino pubblica “Il sentiero dei nidi di ragno”.
Negli anni Cinquanta Fenoglio scrive Il partigiano Johnny, che verrà pubblicato postumo nel 1968.
1960: il premo Strega viene assegnati a “La ragazza di Bube” di Cassola.
Negli anni 1949-1950 Pier Paolo Pasolini aveva scritto Il sogno di una cosa, che si articola in due parti (Prima parte 1948, Seconda parte 1949). L’opera viene pubblicata nel 1962. 

Sono soltanto alcuni momenti della stagione neorealista della letteratura italiana: una cultura prolifica e sfaccettata, che trova espressione in una pluralità di interpreti – ciascuno di loro ha un profilo letterario originale e un’evoluzione poetica autonoma – e in una varietà di opere che oggi leggiamo con rimpianto e ammirazione, per il senso civile di impegno e per l’essenzialità spesso sperimentale dell’espressione, per le connotazioni di serietà contenutistica e per il senso drammatico della storia, caratteristiche - ahinoi - spesso assenti nella produzione letteraria autoreferenziale, narcisistica ed evanescente dei nostri giorni. 

Il sogno di una cosa” di Pasolini è una storia corale (quella de “la gioventù dell’altra riva del Tagliamento”), icastica, rappresentativa di un’epoca e di un luogo: sono gli anni del dopoguerra, gli anni del sogno del socialismo reale e dell’utopia della purezza contadina, gli anni della contestazione del sistema capitalistico e a ciò esplicitamente s’ispirano titolo e citazione introduttiva (“Il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa” - K. Marx). 

Nel panorama agreste (“Un verde ancora invernale, freddo e leggero, colorato qua e là da qualche ramo rosa di pesco”) e popolano (“Le piattaforme per il ballo sono ancora vuote e le mille bandierine di carta, sospese ai fili delle lampade, si muovono appena…”) di un Friuli bucolico sì (“Qualche ramo di saggina o di sambuco, nudo, qualche intrico di venchi sottili e rossi come il sangue, sporgeva qua e là dalla riva della roggia”), ma visto attraverso lo sguardo disincantato e critico di Pasolini scorrono le imprese di tre giovanotti (“Da Ligugnana, Rosa e San Giovanni, che erano i loro paesi, senza sapere l’uno dell’altro, Nini Infant, Milio Bortolus e Eligio Pereisson…”), che trascorrono il loro tempo tra esperienze amicali (“Andarono in osteria e lì crismarono l’amicizia”), sogni rudimentali (“Ognuno aveva molti pensieri in cuore e pochi soldi in tasca”) e ideali ritenuti a portata di mano (“In Jugoslavia.. là almeno c’è il comunismo”) nell’atmosfera promettente dell’immediato dopoguerra (“Ma quelli erano i giorni della speranza”). 

L’approccio dei ragazzi al socialismo reale è deludente (“Qua moriamo di fame”) e apre squarci sulle tragedie epocali di quegli anni (“La confusione dei profughi”). Con il ritorno a casa, l’ozio (“All’Enal l’aria bruciava”) si alterna all’impegno nelle sezioni del partito e alle proteste sindacali (“Come abbiamo fatto e faremo con tutti gli agrari della zona, perché… lei dia da lavorare ai disoccupati… questo è il suo dovere, adesso che hanno fatto il lodo De Gasperi”) animate da un orgoglio identitario ribelle (“Noi comunisti non siamo manigoldi”). 

La seconda parte del romanzo si cala nelle dimensioni personali di personaggi che tuttavia assumono il nucleo familiare come unità archetipica. La scena si sposta nel casale degli zii di Eligio, i Faedis: lì si consumano l’amore infelice di Cecilia per Nini, la relazione tra  Nini e Pia, l’agonia di Eligio.
I raduni serali nella stalla celebrano i risvolti individuali della sensibilità infantile (“Cecilia aveva un’espressione spaventata. Era pentita di essere entrata in sala”), del sentimento adolescenziale (“Il pensiero del Nini le dava solo come una specie di spavento”), della malattia e quelli collettivi dello sviluppo industriale (“Doveva essere scoppiato un deposito della Mangiarotti: tutti lo capirono subito”). 

Pasolini rimane un poeta, così impianta la storia su un sottofondo sonoro (“L’orchestra aveva attaccato allegramente con un passo doppio”): le note del boogie-woogie, la fisarmonica di Eligio, i rintocchi dal sapore leopardiano (“Cominciarono a rintoccare le campane dell’Or di notte”) sino ai suoni del corteo carnevalesco finale che fa da contraltare oppositivo al dramma, nella musicalità linguistica di alcuni passaggi:
“E la luce del sole già basso, dal cielo senza una nuvola, colpiva di sbieco radendo la campagna quasi troppo verde, le casupole del paese, chiazzate d’umido e sgretolate dai lunghi ardori delle estati, gli orti deserti, i cortili grigi, in mezzo ai quali nel disordine dei pollai e degli stabbi, sfolgorava qualche vecchio gelso”. 

Bruno Elpis 

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