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Le recensioni di Bruno Elpis

La scala a chiocciola di Ethel Lina White (MilanoNera)

Dal romanzo di Ethel Lina White è stato tratto l’omonimo film cult di tensione, “La scala a chiocciola”, diretto nel 1946 da Robert Siodmak  e interpretato da Dorothy McGuire e George Brent.
Il thriller riproduce lo stilema del giallo classico, alla Agatha Christie: in un luogo praticamente chiuso, Summit, una villa tardo-vittoriana isolata dal resto del mondo e con un passato macchiato da due delitti, i protagonisti agiscono sotto l’incubo di un serial killer (“…gli omicidi. Erano stati quattro, sicuramente opera di un maniaco che sceglieva come vittime delle ragazze”): tra di loro – così s’intuisce fin dall’inizio - c’è l’omicida, che ha un bizzarro movente. “Non avete notato che l’assassino sceglie come sue vittime solo ragazze che si guadagnano da vivere?”

Eccoli dunque i personaggi che si agitano nel claustrofobico ambiente, su e giù per i pioli di una scala a chiocciola molto gotica (“Le scale di servizio mi ricordano la casa di mia nonna”), anche perché conduce nei penetrali tenebrosi di un interrato-labirinto, anfratto ideale per accogliere l’ennesimo strangolamento...

La protagonista è Helen, ragazza alla pari (“Perché in Dio credeva, in Jane Eyre no”), che cattura la simpatia della stravagante matriarca di casa, Lady Warren (“Una miscela di sangue e fango, agitata tre volte al giorno da una buona dose di pessimo carattere”). Costei (“Non è una che ha voglia di scherzare, è una vecchia malvagia”) è la matrigna dell’intellettuale Blanche (“È tutta una maschera. È una fifona di prim’ordine”) e di Sebastian, enigmatico studioso dallo sguardo glaciale, sempre pronto a isolarsi (“Prese la boccetta del Quadronex e la osservò con attenzione”). Poi c’è il triangolo costituito dall’affascinante studente Stephen Rice (“L’hanno cacciato via da Oxford perché se la intendeva con una ragazza”), del quale s’incapriccia la bella Simone (“un bell’esemplare di animale selvaggio o, per usare un’espressione moderna, l’incarnazione dell’autodeterminazione”) suscitando la gelosia del marito Newton, figlio di Sebastian.
Infine c’è l’immancabile servitù: la cuoca e governante, signora Oates, molto propensa a sollevare il gomito (“Perché… beve?”) fino all’altezza degli “occhi castani sporgenti che, a Hellen, ricordavano quelli di un fedele bulldog”; la cameriera Ceridwen Owen, poco più di una comparsa (“Hanno appena trovato il suo cadavere in un giardino”); la teutonica infermiera (“Odiosa come pochi”) che assiste Milady. Infine, per la gioia e le speranze della terrorizzata Helen, c’è anche il principe azzurro: il dottor Parry.

Nel corso del romanzo, che possiede la grazia classica e compassata del puritanesimo anglosassone, si assiste alla progressiva sparizione dei personaggi (“E se ne sono andati tutti, uno dopo l’altro”), orchestrata dall’assassino per rimanere solo con la vittima: in una notte di temporale, mentre “i rami di un cedro sferzati dal vento” proiettano sinistre ombre sulle finestre… 

Gli ingredienti del giallo classico ci sono tutti, compreso il rapido finale a sorpresa nelle ultime cinque pagine. Nel film, la tensione viene esasperata con un espediente non riscontrabile nel romanzo: Helen soffre di mutismo psicologico e quindi, quando rimane sola con l’assassino, non può neppure invocare aiuto; perché l’omicida agisce in preda al vile delirio di sopprimere donne affette da disabilità… 

Bruno Elpis 

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