Le recensioni di Bruno Elpis
Spider di Patrick Mc Grath
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- Scritto da Bruno Elpis
Oedipus & horror
Il 17 ottobre 1957 troviamo Dennis Cleg, alias Spider, in una pensione londinese amministrata dalla signora Wilkinson: “La mia camera è all’ultimo piano, appena sotto il solaio … non riesco a immaginare come possano fare tutto il rumore che fanno …”
Con lui vi sono strani coinquilini: “… lentamente le anime morte emergono dalle loro stanze e scendono con le facce vuote e le membra rigide …”
“Sedevano nelle loro sedie abituali come un gruppo di manichini da sarto, stupefatte dai medicinali, le facce di lardo, le mani tremanti …”
Dennis, reduce da un’allegorica lunga permanenza in Canada (“Vent’anni è durato il mio Canada”), appunta su un diario la sua storia e cerca di affrontare il complicato ritorno alla casa nativa: il numero 27 di Kitchener Street. Per accertare che ancora esista.
DENNIS CLEG ALIAS SPIDER
“Mia madre mi chiamava sempre Spider. Sono un tipo cadente e fragile …”
A suo dire, ha un padre crudele (“Molto spesso io venivo portato giù nella carbonaia e assaggiavo l’estremità della sua cintura”) e alcolizzato. Trascorre un’infanzia-incubo (“I pasti erano un inferno”) tra manie (“M’immersi nella mia collezione d’insetti” … “Da ragazzo collezionavo insetti, soprattutto mosche, che fissavo dentro a scatole in composizioni artistiche …”) e paure di punizioni corporali.
Fino al culmine: nel “terribile autunno-inverno dei miei tredici anni, quando mio padre incontrò per la prima volta Hilda Wilkinson”, riferisce di aver assistito all’omicidio della madre ad opera della coppia clandestina.
Poi dimensioni temporali e persone si confondono (“si era verificato il ben noto parallelismo di passato e presente, e io dovevo essere entrato in una sorta di trance”) e la schizofrenia diventa una forma di difesa (“Col tempo sviluppai il mio sistema a due teste. Il davanti della mia testa lo usavo con le altre persone in casa, il dietro lo utilizzavo quando mi trovavo da solo”).
IL COMPLESSO DI EDIPO
Il complesso di Edipo di Spider si indirizza in modo feroce verso il padre, l’idraulico Horace. Un personaggio per il quale “l’orto era il centro spirituale e l’essenza di una vita che, per il resto, era priva di amore, monotona e grigia”. Un individuo da odiare senza remissione: “un uomo furtivo e sogghignante, una donnola con le agili zampe macchiate di sangue – misterioso, abile, lascivo, crudele e maligno”. E da spiare. Autentico Edipo, Dennis vigila (possibile?) sui tradimenti di Horace e sulle sue prestazioni: “Era un pene insolitamente sottile, quello di mio padre, ma duro come una matita, e sussultante”.
Spider elabora un odio ambivalente anche per Hilda Wilkinson, la sgualdrina che sostituisce (nella mente, nella realtà?) la figura materna e incarna nel presente la titolare dell’alloggio: “Un grosso animale femmina, non troppo pulito. Forse pericoloso”.
“Ricordo che cominciai a spiarla, perché provocava in me una sorta di fascinazione atterrita”.
Nella rappresentazione di Dennis, Horace e Hilda formano una coppia diabolica: “Io funzionavo per Horace e Hilda come valvola di sfogo per il senso di colpa e per l’ansia che incombevano su di loro”. “Essi secernevano le tossine che l’omicidio … distilla nel cuore umana” “Io dovevo incanalare e assorbire quel veleno”.
Perché “l’omicidio lacera un uomo, lo scompone in mondi diversi. Lo blocca, rendendolo prigioniero del senso di colpa, della complicità e della paura di essere tradito.”
Ma il vero problema per il lettore è stabilire: chi ha ucciso? E chi è stato ucciso? Possibile che il dramma della morte della madre naturale, rimpiazzata troppo presto da un’altra donna, sia il vero trauma che getta scompiglio nella mente di Dennis e lo induce al matricidio?
SOLAIO, CANTINA-CARBONAIA, GASOMETRI
In un’ambientazione londinese da incubo, lungo il canale dei gasometri, tra dock, orti, vicoli e pub densi di fumo, il povero Spider si aggira nella nebbia, incurante della pioggia. Mentre la sua mente vaga tra una cantina dell’infanzia (“E’ strano che mi piacesse la carbonaia, perché è lì che lui mi frustava”) e un solaio del presente (“Dormii male; gli organi interni mi dolevano ancora, e c’era molta attività in solaio”).
RAGNI E RAGNATELE: ARACNOFOBIA
Nel ricordo, le ragnatele sono una geometria naturale. Nel casotto dell’orto “le ragnatele brillavano al sole mentre io fissavo incantato la delicatezza e la perfezione della loro fattura”.
Sono anche un filo che lega Spider alla mamma: “Spesso mi parlava dei ragni, del modo in cui tessevano nel silenzio della notte, e di come, alla mattina presto … vedeva le ragnatele appese ai rami come nuvole di mussolina, anche se quando si avvicinava si trasformavano in ruote scintillanti, ciascuna con un ragno immobile al centro”.
Poi i ragni invadono Spider e il suo corpo cerca di espellere “minuscoli ragni neri, che si raggrinzano in puntolini e galleggiano sull’acqua. Sembra che ne sia infestato; sembra che dia alloggio a una colonia di ragni; sembra che io sia una rete per le uova.”
I ragni avviluppano: “Immaginavo trame di ragnatele scintillanti nell’oscurità, umide trappole di seta tese dallo sterno alla spina dorsale, dalle costole al bacino. Creature che correvano, filavano e tessevano dentro di me.”
E condannano: “Attaccatemi alla trave più vicina e lasciatemi penzolare come il ragno che sono!”
HORROR
Il romanzo ha diversi passaggi che sono classici dell’horror.
Innanzitutto c’è un luogo-simbolo, l’orto degli orrori, con il suo casotto e i suoi personaggi: “C’era un furetto impagliato in una teca di vetro impolverata … Digrignava i denti bianchi e aguzzi … benché uno dei suoi occhi di vetro mancasse e l’imbottitura spuntasse dall’orbita, l’altro scintillava nell’oscurità e mi turbava sempre se lo guardavo troppo a lungo, da creatura maligna qual era.”
“Dalla penombra, sulla parete di fondo, l’occhio del furetto impagliato improvvisamente coglie la fiamma della candela e riflette nel casotto un lampo di luce argentata.”
Oltre all’animale imbalsamato, nell’orto c’è “uno spaventapasseri … le braccia aperte era attaccato a una rozza croce … il cappello posato sulla testa molle e senza occhi, inchiodata alla croce, era scolorito per la pioggia … Per qualche minuto ci fissammo reciprocamente, quella creatura e io, finché un soffio di vento tese i sacchi allentati e mi fece sussultare.”
Poi vi sono le ossessioni: rumori nelle tubature, voci, odori (“A quei tempi c’era sempre, sempre, sempre il pervasivo e opprimente e sporco odore di gas”). E presenze inquietanti: “… Le perfide creature, diavoletti o altro che fossero, erano sempre troppo veloci per me.”
Infine, pullulano animali come topi, larve e scarafaggi.
LA MIA VALUTAZIONE
L’autore di “Follia” ci propone un altro viaggio nella malattia mentale: questa volta non dal punto di vista di un narratore esterno, bensì dall’interno grazie al protagonista narratore.
L’atmosfera è cupa, le descrizioni – anche delle pratiche cliniche – sono agghiaccianti. Al lettore viene lasciata la libertà di interpretare una realtà complicata da confusioni e sovrapposizioni. Il finale tronco è degno di un’opera sospesa e piena di suspense: e ti lascia lì, su un precipizio con una gamba già nel vuoto …
Bruno Elpis
http://www.qlibri.it/recensioni/gialli-narrativa-straniera/discussions/review/id:34610/