Le recensioni di Bruno Elpis
Viaggio nel ’68 con “L’isola e le rose” di Walter Veltroni (parte prima)
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- Scritto da Bruno Elpis
L’ultimo romanzo scritto da Walter Veltroni mi ha particolarmente colpito per un motivo affettivo e sentimentale. Nel 1968 ero un bambino: e, come tutti i bambini, ero curioso di scoprire, di conoscere. Ritengo di aver vissuto l’infanzia in un clima straordinario e stimolante. In un’atmosfera carica di spunti. E questo anche grazie al ’68. Che ho avuto modo di gustare, nell’adolescenza, soprattutto negli effetti prodotti dalla rivoluzione culturale del ’68: nel clima ideologico – con tutte le opportunità, le complessità e le contraddizioni, talvolta anche violente – degli irripetibili anni settanta.
“L’isola e le rose” mi ha consentito di compiere un viaggio in questo passato ricco di ideali, di sogni e gioventù e, a lettura ultimata, sono stato percorso dalla nostalgica energia che pervade un romanzo che principalmente parla di progettualità.
Perché “L’isola e le rose” narra la straordinaria storia di alcuni giovani che – con entusiasmo e con una buona dose d’incoscienza - decidono di costruire una piattaforma, oltre il limite della acque territoriali, a undici chilometri da Rimini, per accogliere una comunità di artisti, poeti e musicisti: “Un’isola del bello, della scienza e dell’arte in mezzo all’Adriatico.” “Tutto diceva che quell’idea bislacca, quel sogno da Peter Pan, era fattibile.”
La vicenda, come un’Atlantide sepolta, riaffiora per un ritrovamento fortuito: Giovanni, sommozzatore dilettante, entra in possesso di un messaggio scritto in esperanto. “Durante un’immersione, molto al largo, ho trovato sul fondo del mare una borsa frigorifera perfettamente conservata. L’ho aperta e in mezzo ad altre cose, dischi e libri e cappellini, c’erano dei fogli di carta con parole per me incomprensibili.”
Lo stesso Giovanni, con una sommaria indagine, risale a un personaggio che ha partecipato all’incredibile avventura dell’isola delle rose. E la racconta.
Sullo sfondo la Rimini di Fellini. E una descrizione lirica della Rimini d’inverno.
Dicevo, nella lettura ho avuto modo di ri-attraversare il ’68, questa volta da un’altra prospettiva: non più quella del bambino che sta crescendo e, famelico di novità, si affaccia all’esplosione del mondo, bensì dal punto di vista di chi ha già trascorso anche i decenni successivi: quelli che hanno visto crolli di muri e di ideologie, fallimenti, epoche narcotizzate dal gusto per l’apparire e svuotate di contenuti. I decenni patinati ed evanescenti che hanno dribblato il secondo millennio.
Con questa panoramica, ho pertanto ripercorso la magia degli anni sessanta. A partire dall’utopia.
L’utopia
Quella de “L’isola è le rose”, in fondo, è la più vecchia delle utopie. Quella di Platone che nella “Repubblica” teorizza il progetto di una città ideale, governata in base a principi filosofici.
La storia dell’utopia è passata attraverso Tommaso Moro, “la città del sole” di Campanella, “la nuova Atlantide” di Francis Bacon, il “Falansterio" del Fourier. E tante altre formule, tutte protese a identificare una modalità atta a regalare benessere e felicità all’uomo.
Ma vediamo nel dettaglio in cosa si sostanzia l’utopia dell’isola delle rose. Partendo dalla considerazione che anche l’esperanto, in fondo, è stato un’utopia (“Loro pensavano fosse la lingua del futuro. Erano, e sono rimasti, dei sognatori”). E dalla constatazione che “il mondo sembra sospeso tra una rivoluzione e il suo contrario. Solo soluzioni radicali. O bianco o nero. O rosso o nero”. Con una tensione ben precisa: “Io cerco solo più libertà, per questo mi piace l’idea dell’isola. Lo so che sembra una fuga, ma invece può essere un modello”.
Inizialmente, l’utopia sembra realizzabile, perché l’isola viene ‘installata’ e sembra “la dimostrazione che un sogno può prendere forma, che un’utopia può diventare concreta. Che le parole possono farsi legno e ferro.” E “qui tutto è possibile, perché nulla è vietato. Tranne far del male agli altri.”
Poi la realtà delle cose evolve, si fa più articolata: “La creatura perfetta è un minotauro. Metà te e metà me. Metà ambizione individuale e metà sogno collettivo.” “È l’Isola delle Rose la creatura perfetta, il minotauro marino. È figlia del mio desiderio, pratico, di trovare ricchezza … e del tuo sogno di un mondo più aperto e più giusto, del tuo amore per l’arte e la bellezza.”
Di fronte alle difficoltà, i protagonisti dell’avventura si pongono alcune domande: “A chi facciamo male? Siamo dei ragazzi che hanno voglia di lavorare e inventare, che amano la bellezza della creatività e della natura. Non siamo dei violenti, al contrario.”
“Siamo dei sognatori? Può darsi. Ma un eccesso di realismo ha tolto all’umanità le utopie che l’hanno fatta crescere …”
“Ti chiedi come mai siamo sfiduciati, tristi, disimpegnati? Be’, ci avete tolto tutto e pretendete anche che siamo allegri!”
(continua)
http://www.malgradopoi.it/novita-e-bestseller/viaggio-nel-68-con-lisola-e-le-rose-di-walter-veltroni-parte-prima