Le recensioni di Bruno Elpis
Il tempo dell'innocenza di Raul Montanari (Malgradopoi)
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- Scritto da Bruno Elpis
L’innocenza è una condizione dello spirito che nella più classica e conservativa delle concezioni rappresenta uno stato originario, tipico del bambino (e addirittura del neonato: “L’innocente” di D’Annunzio!), destinata – ahinoi – alla corruzione per le inevitabili contaminazioni della vita e della società. Concezione vittoriana messa a dura prova già da Freud che, agli inizi del secolo scorso, ha sfatato – scandalizzando la sua epoca – l’idea dell’innocenza infantile con i “Tre saggi sulla sessualità”.
Dell’innocenza, in modo come sempre originale, si occupa anche Raul Montanari nell’ultimo romanzo che ha consegnato alle librerie per la gioia di chi, come me, ama le opere di questo autore. L’innocenza, sembra dire lo scrittore, è qualcosa da conquistare attraverso le peripezie e le sofferenze di uno spirito che si dibatte nella dialettica della vita. “Il tempo dell’innocenza”, in questa accezione così affascinante e contemporanea, diviene allora il futuro: “perché io sono stanco di essere colpevole ed è arrivato il tempo di essere innocente, se sarà possibile”.
In questa lettura, l’innocenza è una condizione esistenziale, prima che morale o giuridica: anche dopo un omicidio, a seguito del quale l’innocenza diviene uno status da verificare con le procedure codificate (e spesso disattese) dal diritto.
Ma procediamo con ordine.
La storia ha due poli temporali che, sinistramente, coincidono con due catastrofi nucleari: 1986-Chernobyl, 2011-Fukushima. (“Venticinque anni fa e mi sembra ieri. Forse perché quelli erano i giorni dannati di Chernobyl, e il disastro nucleare che è successo il marzo scorso a Fukushima ha come gemellato queste due date”).
Nel 1986 Damiano, Ivan ed Ermanno sono tre adolescenti, dei quali il romanzo proietta immagini interpretando alcuni capitoli di psicologia dell’età evolutiva (“C’è un nocciolo ostinato dentro un uomo, che si forma nell’adolescenza e rimane inalterato. C’è un momento in cui uno incontra se stesso e si riconosce per sempre, e sono sicuro che questo incontro avviene fra i dodici, tredici e i diciott’anni al massimo”). I tre ragazzi si trovano nell’età del gioco, della scoperta del sesso, del mistero rappresentato qui dalla lettura delle rune. Ma soprattutto l’adolescenza è il tempo in cui si sperimentano i primi rapporti di potere negli equilibri interpersonali. Tra prove di forza, sberleffi giovanili e complessi: quello del maschio che affronta la prima esperienza d’amore o il complesso d’inferiorità per un difetto comunicativo come la balbuzie. Nella consapevolezza non sempre lucida della propria crescita personale (“Mio padre, di ritorno da uno dei suoi viaggi, mi portò un trenino elettrico che era fuori tempo massimo … Io ero cresciuto e lui non se n’era accorto. Provai una stretta al cuore …”).
Ermanno è vittima di un gioco crudele, che lo segnerà in modo irreparabile. Damiano e Ivan, ideatori e - in parte e in difforme misura - esecutori di un tragico meccanismo, sono personalità ben diverse tra di loro. Dopo l’episodio crudele che ‘rovina’ Ermanno, la vita divaricherà ulteriormente i percorsi di Damiano e di Ivan: rendendo recessivo (“Sei proprio un gatto selvatico … non hai nemmeno un amico”) e rinunciatario il profilo del primo (“Le scelte degli adulti le ho eluse tutte, finora: la professione, la famiglia”), consegnando successo economico e politico al secondo (“Adesso ho capito a chi somiglia: a Gene Hackman. Rispetto ai fasti di quando sembrava il replicante di Blade Runner … ma sono sicuro che qui in paese lo considerano un bell’uomo”).
Con Ivan, amico di un tempo, Damiano sperimenta che “non esiste nemico più irriducibile di una persona che ti ha fatto un torto”.
Probabilmente, le strade di Damiano e di Ivan non si incontrerebbero più, se non intervenisse una sfingea burattinaia: Regine, la madre di Ermanno, già lettrice di rune e disvelatrice di premonizioni, decide infatti di riannodare i fili dei destini separati, proponendo un drammatico scambio nel quale si devono barattare le vite umane.
Il noir come colore predominante
Il romanzo è sovrastato da un’atmosfera nera. Da un’aria sinistra. Ben esteriorizzata fin dalla copertina, completamente nera, sotto una cover a colori che ritrae un ragazzo dalla bellezza efebica.
Nella prima parte domina il paesaggio metropolitano: “… i prati dietro l’Ospedale Maggiore, la grande zona incolta, semiselvaggia, che sta fra Niguarda, Affori, Bruzzano. Un paesaggio che a seconda dell’angolo in cui ti fermi a guardarlo, e dell’ora del giorno, può sembrarti affascinante, squallido o spaventoso.” Un paesaggio fatto di “campi, orti abusivi, baracche di lamiera.”
Il gioco crudele del quale Ermanno sarà vittima si svolge nella ‘Foresta Nera’: “C’è dell’acqua qui dentro, un rigagnolo che scorre da qualche parte alla mia destra. E questo buio. Tutti gli spettri della notte mi guardano, i mostri dei film, i brutti sogni, i morti.” Un richiamo dantesco per un evento chiave nel quale è forte il significato allegorico della “selva oscura”.
Lo scontro finale avviene sul lago d’Iseo, un lago dipinto a tinte fosche anche negli incubi dei protagonisti. Siamo a Villavetere (un travestimento per la Castro dove l’autore ha vissuto la sua infanzia e che è già stata lo scenario di romanzi come La perfezione e Chiudi gli occhi), in prossimità della foce del torrente Borrezza, “…dove la roccia entra a picco nel lago e la strada sovrastante è un susseguirsi di brevi gallerie illuminate”.
La tinta scura predominante macchia le pagine ove le ambientazioni intrecciano i riferimenti alla morte: “… tutto questo è destinato a diventare cenere. Nel momento della mia morte, questo tumulto di emozioni e affanno si svuoterà di colpo e il mondo cesserà di esistere …”
La tensione
Naturale, in questa atmosfera, rimanere avviluppati nelle trame della tensione. Che scorre su binari plurimi e paralleli.
Si tratti della sospensione alla quale ci condanna la vicenda ospedaliera della sorella di Damiano (“L’aspetto più angoscioso di tutta la faccenda è una cosa a cui non avrei mai pensato prima che ci andasse di mezzo Marianna: il trapianto non può essere pianificato”).
Si tratti del ritmo scandito dagli attacchi di panico di Damiano, da sedare a suon di tavor (“In certi anni della mia vita è stato devastante, poi è diventato controllabile”).
Si tratti, infine, delle alterne e sorprendenti fasi nelle quali si consuma lo scontro tra i rivali.
L’autore
Raul Montanari è, oltre che abile scrittore, un ‘maître à penser’.
Per chi fosse interessato a cogliere anche questa dimensione, consiglio di indugiare su alcune pagine del romanzo.
Come quelle ove – con un’incursione nella critica sociale - tira al bersaglio sui social network. (“Facebook … tutti in maschera nel paese della Cuccagna! … Persone che fanno mestieri affascinanti come il fisico atomico o la maîtresse sadomaso si affannano a qualificarsi come scrittori …”)
O in alcuni passaggi (dopo “Il Cristo Zen”) sulla religione: “Quanti si rendono conto di quello che dicono, quando ripetono a macchinetta le parole potenti, gigantesche del Credo? … Non è un’esperienza aliena, la fede ... com’è possibile che svanisca?”)
O quando, come se il libro fosse una scatola cinese, propone una lettura: “Il cappello del prete” di Emilio De Marchi “ un noir … la risposta italiana a ‘Delitto e castigo’ …” Una lettura che, in quanto consigliata da Raul, potrebbe essere tra le prossime di …
… Bruno Elpis
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