Le recensioni di Bruno Elpis
Cecità di José Saramago (i-libri)
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- Scritto da Bruno Elpis
In un eccesso visionario José Saramago interpreta in Cecità le ansie millenaristiche di pandemia, che periodicamente e ciclicamente scuotono l’opinione pubblica (così fu con l’AIDs negli anni ottanta, con il morbo della mucca pazza, con lo spettro dell’aviaria…).
Il romanzo percorre in un crescendo di tensione e di terrore il primo manifestarsi della malattia (“Gli occhi dell’uomo sembrano sani, l’iride si presenta nitida, luminosa, la sclera bianca, compatta come porcellana”), il tentativo di inquadrarla (“Le è entrato qualcosa negli occhi, non gli venne in mente, e tantomeno lui avrebbe potuto rispondere, Sì, mi è entrato un mare di latte”) in una diagnosi preliminare (“Questa cecità è bianca, esattamente al contrario dell’amaurosi, che è tenebra totale”), la sua definizione (“Il mal bianco… come l’indecorosa cecità aveva cominciato a essere designata”), la diffusione del morbo, il tentativo di isolare gli infetti in un luogo chiuso e presidiato (“Si trattava in sostanza di mettere in quarantena tutta quella gente, secondo l’antica prassi ereditata dai tempi del colera e della febbre gialla”), la reazione repressiva del potere (“Fu la paura a fargli puntare l’arma e sparare una raffica a bruciapelo”) e il cinismo delle contromisure (“La cosa migliore sarebbe lasciarli morire di fame, morta la bestia addio veleno”), il divampare del contagio, l’infuriare della distruzione, il degrado dei rapporti umani (“Sono spaventati, non sanno dove andare, è che non c’è paragone tra il vivere in un labirinto razionale, come lo è per definizione un manicomio, e l’avventurarsi, senza la guida di una mano né il guinzaglio di un cane, nel labirinto demenziale della città…”), le dinamiche psicologiche e sociali che si sviluppano in un contesto estremo e di emergenza.
“A volte aveva giocato con se stesso, nell’adolescenza, al gioco del E se fossi cieco, ed era arrivato alla conclusione, dopo cinque minuti a occhi chiusi, che la cecità, senza alcun dubbio una terribile disgrazia, avrebbe potuto essere relativamente sopportabile se la vittima di una simile sventura avesse mantenuto un ricordo sufficiente, non solo dei colori, ma anche delle forme e dei piani…”
Lo stile inconfondibile di Saramago si manifesta nella soppressione e nella sincope del discorso diretto, nel designare i personaggi con nomi comuni (il primo cieco, il ladro d’auto, la donna dagli occhiali scuri, il bambino strabico, il vecchio dalla benda nera), per genus (l’oculista e la moglie) o situazioni (Quella donna che aveva detto, Dovunque andrai, verrò), nel ricorrere all’ironia macabra del modo di dire (“Botte da orbi, si suol dire”) o del proverbio (“Così è la vita, chi non ha cane caccia col gatto”).
Anche il punto di vista del narratore viene assicurato dalla presenza di un personaggio immune da cecità (“L’astuzia della moglie del medico, dichiarare di essere cieca senza esserlo”) e grazie al deus ex machina del potere dell’invenzione letteraria (“Come sia stato possibile sapere che le cose siano andate così e non altrimenti, la risposta da dare è che tutti i racconti sono come quelli della creazione dell’universo, nessuno c’era, nessuno vi ha assistito, ma tutti sanno cosa è accaduto”).
Una situazione così vistosamente metaforica (“Probabilmente solo in un mondo di ciechi le cose saranno ciò che veramente sono, disse il medico”) legittima riflessioni escatologiche, pessimismo cosmico (“Che senso hanno le lacrime quando il mondo ha perduto ogni senso”) e al tempo stesso, nel finale, un raggio di speranza (“Probabilmente questo incontro della donna e della mappa, tanto ben preparato dal destino, includeva anche un cane”) a squarciare il buio della miseria umana (“Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscere la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”).
Bruno Elpis