Le recensioni di Bruno Elpis
Stoner di John Williams (i-libri)
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- Scritto da Bruno Elpis
Estendendo alla personalità la bipartizione dei fenotipi ereditari individuati da Mendell, potremmo dire che anche nel consesso umano s’incontrano caratteri predominanti e caratteri recessivi. A quest’ultima categoria – quella delle persone pacate, rispettose, tolleranti, attente ai particolari – appartiene “Stoner” di John Williams.
I romanzi dei nostri giorni abbondano di protagonisti “predominanti”, nei quali gli scrittori trasfondono narcisismo, esibizionismo, esasperazioni e mistificazioni che trionfano nella vita reale. Più difficile è interpretare la normalità, l’ordinarietà della lotto quotidiana per la sopravvivenza sociale e individuale o quell’endemico confronto con le difficoltà che invece statisticamente rappresentano l’id quod plerumque accidit di molte vite.
In quest’impresa letteraria – rendere protagonista un uomo realisticamente rappresentato – riesce pienamente John Williams. Perché William Stoner, per lo più designato dall’autore con il solo cognome – quasi lo scrittore volesse mantenere una distanza con la sua creatura, in un universo ove l’autore generalmente s’immedesima nel superomismo interpretativo – affronta esperienze comuni e ordinarie, generalmente deludenti.
Nella vita di Stoner scorrono così il distacco culturale dalla famiglia d’origine contadina (“Chi sei tu, veramente? Un umile figlio della terra, come ti ripeti davanti allo specchio? Oh no… sei il sognatore, il folle in un mondo ancora più folle di lui, il nostro Don Chisciotte del Midwest… Tu credi che ci sia qualcosa qui, che va trovato… Anche tu sei votato la fallimento”), una scelta universitaria sofferta che lo porta a migrare dalla facoltà di agraria a quella di letteratura (“Inglese… e non sono un professore, sono un lettore”), poche amicizie ordinarie (“Finch. Con tutto il rispetto, direi che di noi tre sei il più incompetente”), la scelta inerte del futuro professionale, un matrimonio sbagliato con Edith (“Con l’abito bianco indosso, era come un lampo di luce fredda che inondava la stanza”) una donna isterica che su di lui riversa ferocemente le proprie frustrazioni (“La forza che attraeva i loro corpi aveva ben poco a che fare con l’amore: si accoppiavano con una determinazione feroce eppure distaccata…”), i compromessi familiari (“Alla fine Stoner accettò il prestito”), il fallimentare rapporto con la figlia infelice Grace (“Ho un bisogno disperato di bere”), la pubblicazione di un’opera letteraria senza infamia né lode (“Le sue aspettative nei confronti del primo libro erano state insieme caute e modeste, rivelandosi appropriate”), una relazione extra-coniugale con Katherine Driscoll (“E così ebbe la sua storia d’amore”), una carriera universitaria non folgorante anche a causa di un dissidio con il capo del dipartimento Lomax (“E per oltre vent’anni non si rivolsero più la parola”), le schermaglie e i giochi di potere nel mondo accademico (“Mr Walker… la commissione non è riuscita a trovare un accordo in merito al suo esame”) sino al pensionamento forzoso (“Voglio ringraziarvi tutti per avermi concesso di insegnare”)…
Intanto sullo sfondo scorrono, in prospettiva americana, gli eventi storici dalla prima grande guerra, l’avvento del totalitarismo hitleriano (“Quell’incubo che irrompeva nel mondo reale”), il secondo conflitto mondiale (“Cinque giorni prima del matrimonio – ndr di Grace - i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor”).
Con stile cristallino e diretto, vengono messe in risalto la medietà, le sconfitte pacatamente accolte (“Ci sono guerre, sconfitte e vittorie della razza umana che non sono di natura militare e non vengono registrate negli annali di storia”), il senso di estraneità (“A volte gli sembrava di essere una specie di vegetale e sperava che qualcosa – anche il dolore – lo trafiggesse per riportarlo in vita”) e di distacco che, per paradosso psicologico, spesso accompagna i momenti più tragici della vita (“Fu lieto che avesse almeno quello, fu grato che potesse bere”).
Il romanzo è molto triste, diviene sempre più commovente sino a farsi straziante. Ho chiuso le ultime pagine, quelle della malattia e dell’agonia di Willie, con la sensazione di voler bene a Bill. Perché al lettore – per identificazione catartica? - viene naturale non soltanto chiamare Stoner per nome, ma addirittura rivolgersi a lui affettuosamente, con l’abbreviativo…
Bruno Elpis