Le recensioni di Bruno Elpis
La disubbidienza di Alberto Moravia (i-libri)
- Dettagli
- Categoria: Recensioni
- Scritto da Bruno Elpis
Adolescenza, età della ribellione (“Un’età… in cui la sensibilità è sveglia e la coscienza ancora assopita”).
Per qualcuno la rivolta ha un oggetto specifico.
Per il quindicenne Luca Mansi, la protesta è multidirezionale e si esprime in una formula: “La disubbidienza” analizzata da Alberto Moravia.
Le dinamiche in atto (“In quel tempo era soggetto a rabbie improvvise e furie durante le quali il suo corpo, già così stremato, pareva bruciare le poche forze che gli restavano in parossismi di rivolta e di odio”) hanno alcuni prodromi: un pianto inconsulto causato da una scossa elettrica, l’estromissione del cibo dopo un viaggio in treno.
Poi si afferma l’idea della disubbidienza, un processo (“La sua rabbia… Come se avesse avvertito l’inanità della violenza, essa si trasformò improvvisamente in una volontà di rinunzia e di abdicazione”) che risponde a principi propri (“Forse, riprendendo a disubbidire su un piano più logico e più alto, egli non faceva che ritrovare un atteggiamento nativo e perduto”). E se l’adolescente, in genere, manifesta la ribellione in un atteggiamento specifico (rifiuto della scuola, contestazione dei genitori, disturbo alimentare o altro attentato contro l’incolumità), Luca si scaglia contro i simboli borghesi. Tutti, nessuno escluso.
L’amor proprio scolastico.
I genitori (“E voi perché mi avete fatto pregare tanti anni inginocchiato davanti il vostro denaro?”).
La proprietà (rappresentata da marionette, francobolli, libri) e il senso del possesso.
Il denaro.
Infine la stessa vita (“Ora si era attaccato all’ultima parte del piano: la morte fisica”).
“Non mangiare: comprese ad un tratto che questa, fra tutte le disubbidienze, era la più grave, la più radicale, quella che maggiormente intaccava l’autorità familiare.”
Ma la vita scorre sotterranea e affiora nell’impulso sessuale (“L’irritava soprattutto che la fame dei sensi umiliasse in maniera così facile il suo desiderio di liberazione e di morte”). Ha le forme sgraziate di una governante in una breve, sfortunata storia (“La conclusione mortificante di trovare un’agonia là dove si era aspettato un convegno amoroso”).
Luca cerca di affermare la sua disubbidienza (“Professori e compagni, pensò Luca, volevano che egli vivesse, che continuasse a vivere”), tonificandone il meccanismo (“Capiva che soltanto dando a questa disubbidienza il carattere meccanico e puntuale di un gioco, avrebbe avuto la forza di portarla fino in fondo”) e sfidando la punizione (“Almeno, con la punizione, il carattere profondamente coercitivo della vita si svelava a pieno, senza più alcun ipocrita infingimento”).
La lotta contro la vita (“Morire… era forse l’unico vero piacere che riserbasse agli uomini la vita”) si somatizza in una grave malattia (“Come un sacrificio necessario, conclusione inevitabile di una serie di altri sacrifici minori”): la guarigione potrà sbocciare (“Era una sensazione sconvolgente di libertà aggressiva, di esplorazione illimitata, di visione balenante; come se l’avvenire, accendendosi e bruciando al fuoco dell’immaginazione, gli si fosse consumato e scontato in un attimo, tutto intero, fin nei minimi particolari”) affiorando dagli incubi febbrili, quasi per miracolo, o per l’arte oblativa di un’infermiera. Potrà sbocciare, sì. E forse anche normalizzarsi (“Gli pareva di aver trovato finalmente un modo nuovo e tutto suo di guardare alla realtà fatto di simpatia e di paziente attesa”).
Anche questo giovane Werther, migrato dal romanticismo ottocentesco al ventesimo secolo dei conflitti mondiali, si staglia su una realtà eteroclita (“Era come se una vibrazione fitta e crescente avesse sforzato gli oggetti fuori dei loro limiti soliti, in un’aria rarefatta e balenante”) tra amori scarnificati negli istinti e riflessioni antiche sul mistero dell’uomo e dei suoi manufatti sociali (“L’idea della morte come di un’operazione magica che gli avrebbe permesso di creare un mondo meno assurdo, più amabile e più intimo, in cui ogni cosa fosse giustificata dall’amore”).
Bruno Elpis