Le recensioni di Bruno Elpis
La confraternita del Chianti di John Fante (qlibri)
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- Scritto da Bruno Elpis
“Come poteva un uomo vivere senza suo padre?”
“La confraternita del Chianti” di John Fante è una malassortita compagine, che ruota intorno a un fulcro magnetico: Nick Molise, scalcagnato patriarca (“Era un pessimo giocatore, disperato, terrificante… Doveva proseguire fino alla distruzione finale, come uno deciso a sacrificarsi a una passione fatale”) di una famiglia riottosa (“Il nostro era un clan impulsivo, imprevedibile, incline alle decisioni brucianti e a terribili rimorsi”), alla quale appartiene il narratore, il figlio Henry, scrittore (“Reggevo il suo libro tra le mani… e capii che non sarei mai stato più lo stesso… Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere”), alias John Fante in persona!
I confratelli (“Erano una ghenga di strambi, irascibili, duri individui da previdenza sociale: gente ringhiosa, frontale, vecchi bastardi maligni e aspri, che però se la spassavano colo loro spirito crudele e i modi profani del loro cameratismo”) sono italo-americani (“Joe Zarlingo, un macchinista delle ferrovie in pensione”) dai nomi incontrovertibili (“Lou Cavallaro, un frenatore in pensione; Bosco Antrilli, che una volta era il capo dell’ufficio telegrafi…”), biscazzieri devoti al dio Bacco, che hanno in Angelo Musso - ottuagenario vignaiuolo (“Erano… i suoi schiavi, angosciati quando il raccolto andava male, poiché il suo vino era come il latte della loro seconda infanzia”) - il loro empio, ieratico sacerdote (“Baciai quella mano che sembrava fatta di sole ossa e cartapecora”).
L’equivoco caffè Roma è il loro quartier generale e lì organizzano la bislacca spedizione che ha uno scopo dichiarato (costruire “Un affumicatoio di pietra, su, in montagna” nel motel di Sam Ramponi, profittatore da strapazzo) e un significato più recondito.
Henry, richiamato dai fratelli a San Elmo per sedare una delle tante liti scoppiate tra i genitori, si ritrova invischiato nella spedizione: su un furgone scalcinato (“L’interno faceva pensare a una casa di tolleranza semovente adibita al servizio di un muratore con tutta la sua attrezzeria”), gli intrepidi s’inerpicano per le strade di un Colorado nel quale impropriamente viene proiettato il Chianti, tra i colori di una natura che ha qualcosa di ancestrale: “I fianchi deliziosi delle colline autunnali filavano dietro i finestrini: alberi di manzanita, querce nane e pini, e poi fattorie, vigneti, mucche e pecore al pascolo tra rocce bianche, e boschetti di peri e di peschi. Da quelle parti, l’autunno era una stagione forte: la terra mostrava i muscoli, la propria fertilità, e nell’aria c’era un senso di selvaggia energia”.
Il risultato della spedizione è li da vedere (“Era primitiva, era tutta storta”).
Fallimentare?
Niente affatto. L’esperienza di Henry ha il sapore di un ritorno alle origini e si carica di simboli nel percorso che rappresenta l’accompagnamento dell’indomito, ruggente padre tra le braccia della morte (“Avevo visto il bagliore della morte sul viso di un vecchio che si aggrappava strenuamente alla vita”).
Il romanzo è delizioso: nel rappresentare un’italianità archetipica (“Ma lui era un caprone d’Abruzzo dalle corna iniettate di veleno, e non cedeva”) che mai si banalizza negli stereotipi (“In quell’indecente soprabito da bordello di zia Carmelina”). In un linguaggio apparentemente casuale (“un matto di un dago”), sempre carico di espressioni vive (“i rampolli di quelle vecchie spingarde”), in un clima perennemente in bilico tra l’ironia malinconica e la nostalgia sferzante dell’artista che ha la lucida consapevolezza di possedere quel talento che il mondo, altrettanto pervicacemente, non gli riconosce...
Bruno Elpis
http://www.qlibri.it/recensioni/romanzi-narrativa-straniera/discussions/review/id:49716/