Le recensioni di Bruno Elpis
La confraternita del Chianti di John Fante (i-libri)
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- Scritto da Bruno Elpis
Grazie a “La confraternita del Chianti” John Fante confeziona un’opera nella quale il genio letterario dà pieno sfogo a un temperamento creativo che alle radici italiane affida l’affilato equilibrismo tra razionalità e follia.
Questa volta siamo fuori dal perimetro della famiglia Bandini e ci troviamo nel bel mezzo della dinastia dei Molise: una famiglia che ruota intorno alla potente figura di Nick (“Nel corso degli anni, agli angoli delle strade, nei saloon, nelle sale biliardo, Nick Molise si era cacciato in tante di quelle baruffe che il buon nome della famiglia era ormai gravemente compromesso in città”), il padre, che naturalmente preferisco definire con le parole dell’autore: “Capriccioso, rumoroso, profittatore della pazienza altrui, quasi sempre sbronzo, a San Elmo poteva starsene a briglia sciolta”.
E se non bastasse: “Faceva pietà: distrutto, imbarazzante, rivoltante, spudorato, stupido, rozzo, disgustoso e sbronzo, il peggior padre che un uomo potesse avere…”
Fatte salve improvvise e autentiche impennate d’affetto filiale: “Il mio vecchio! Che tesoro che era, com’era eccitante!”
Il romanzo si apre con una sceneggiata vivacissima, un litigio coniugale con relativa denuncia, minaccia di divorzio (“È cattolica osservante. Non ci sarà nessun divorzio”) e relativi strascichi. A questo scenografico sipario viene demandato il compito di presentarci l’eterogeneo nucleo familiare. Accanto al capoclan, si staglia l’altrettanto centrale figura materna: centrale non soltanto per le abilità culinarie (“Mia madre sarebbe stata capace di far da mangiare anche con un po’ d’acqua calda e un osso”), ma anche perché costituisce un modello alternativo in una dialettica perenne (“Spero che se ne vada per primo. Nessuno all’infuori di me è in grado di sopportarlo”). E dinnanzi al bipolarismo genitoriale, i figli appaiono più fragili, quasi un ingombro (“I figli erano i chiodi che lo tenevano crocefisso a mia madre. Senza di loro, sarebbe stato libero come un uccello”), eppure altrettanto ben caratterizzati, spesso con le tonalità sottilmente umoristiche del Fante: così Mario (“Mio fratello Mario, un quarantenne tranquillo, un uomo un po’ sopra le righe…”), perennemente incollato alle telecronache del baseball, dopo che Nick gli ha spezzato il sogno di divenire campione; così Virgil, bancario dalla carriera bloccata (“Dirigente dell’ufficio prestiti della First National Bank, mio fratello Virgil era convinto che le stravaganze di papà gli avessero rovinato la carriera”); così la recessiva figlia (“Quanto a mia sorella Stella, mai aveva cessato di disapprovare il vecchio”)…
Tra i figli, si distingue Henry: un po’ perché a lui viene affidata la narrazione, un po’ perché in lui scrittore (“Ti pare che oggi saresti uno scrittore se non era per quelle due persone meravigliose?”) ritroviamo sia Arturo Bandini, sia lo stesso John Fante (“Dostoevskij era epilettico. Io avevo l’asma. Per poter scrivere bene, un uomo deve avere un’indisposizione fatale. Era l’unico modo per avere a che fare con la presenza della morte”), un po’ perché attraverso il suo sentire vengono rappresentate le individualità, le contrapposizioni a volte complici (“Dai papà, ho cinquant’anni. Ne ho viste di cotte e di crude”), le aspirazioni, i ricordi e i sentimenti (“Mi sentivo un serpe uscito dalla propria pelle per cercarsene un’altra più vecchia. Mi sentivo un vecchio di sedici anni”) di un microcosmo variopinto, tanto nelle sfumature più vispe (“La signorina Quinlan spalmò uno strato sottile di miele di gelsomino sulla mia spada, dalla radice alla punta”) quanto in quelle più nostalgiche che si scatenano nel letto di mamma, inalando il suo profumo (“Allora piansi… le sole venute in mie soccorso erano quelle piccole bestioline che avevano provocato dapprincipio tutto quel caos: i granchi”)…
Intorno alla famiglia vi è poi il drappello degli italo-americani, la confraternita dell’uva, una sorta di armata Brancaleone abile soltanto nell’alzare il gomito e nel fiancheggiare in modo guascone le intemperanze di Nick Molise… Ma la descrizione richiederebbe un altro, intero commento, che rimandiamo alla prossima puntata…
Godibile, divertente, a tratti spettacolare, “La confraternita dell’uva” ha l’impareggiabile sapore di un ottimo bicchiere di vino d’annata italiano. Come ci ricorda una nota ricorrente collocata a piè di pagina (“in italiano nel testo”), che contrassegna parole scritte in corsivo, in sé parlanti e che pertanto mi astengo dal commentare: la cucina – mannaggia! – minestrone – trippa alla milanese – puttana!
Bruno Elpis