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Le montagne della follia di H.P. Lovecraft (i-libri)

coverSecondo H.P. LovecraftLe montagne della follia” si troverebbero in Antartide, come testimoniato dal racconto-diario di Dyer, esploratore-narratore a capo dell’immaginaria spedizione scientifica (“Come geologo a capo della Miskatonic University, il mio obiettivo era solo recuperare campioni di roccia e suolo dagli strati più profondi del continente antartico, in ciò aiutato dall’impressionante trivella messa a punto dal professor Frank H. Pabodie, del nostro dipartimento di Ingegneria”) partita nel 1930 (“Salpammo dal porto di Boston il 2 settembre 1930”). 

Già durante il viaggio, alcuni miraggi premonitori (“Un miraggio sorprendentemente vivido… in cui gli iceberg in lontananza si trasfiguravano nelle merlature di inimmaginabili castelli cosmici”) rivelano per rifrazione una realtà spaventosa che affiorerà nel corso dell’esplorazione.
Una volta giunta a destinazione, l’unità scientifica si divide, sfiorando “il punto critico dell’ammutinamento”: alcuni componenti del gruppo si dirigono verso ovest (“Nel Canale di McMurdo… sottovento rispetto all’Erebus fumante. La vetta scoriacea… torreggiava contro il cielo orientale come in una stampa giapponese del sacro Monte Fuji e alle sue spalle si alzava il monte Terror, bianco e spettrale…”).

I primi messaggi che giungono al campo base dal gruppo capitanato da Lake sono entusiastici (“Sezioni regolari di cubi abbarbicate a vette più alte. Panorama prodigioso in luce rosso-dorata del sole basso. Come terra di mistero in sogno o portale verso mondo proibito di meraviglie mai scoperte prima”), parlano di una città fantasma (“Vecchie fortezze asiatiche aggrappate a ripide montagne in quadri di Roerich”) e di scoperte sorprendenti (“Lake si rivolse di nuovo alla mitologia, chiamando le sue scoperte, quasi per celia, «gli Antichi»”), sembrano dar ragione a Lake (“Dyer farebbe meglio a mangiarsi le mani per aver cercato di fermare il mio viaggio a ovest”), ma poi cala un silenzio agghiacciante (“Ogni tentativo di contattare il campo non otteneva altra risposta che il silenzio”) che sicuramente nasconde una disgrazia.
Diventa necessario verificare cosa sia realmente successo: con angoscia i soccorritori constatano che è intervenuta una strage di uomini e cani. Soltanto un membro della spedizione e un cane mancano all’appello. Possibile che lo scomparso sia responsabile dell’eccidio (“La pazzia – concentrata in Gedney in quanto unico possibile perpetratore ancora in vita”) e delle orrende mutilazioni che i corpi hanno subito?
Dyer e l’assistente Danforth sorvolano le montagne della follia e ammirano dall’alto lo spettacolo delle vestigia di un’antica civiltà (“Quel reame infestato e maledetto, dove la vita e la morte e lo spazio e il tempo hanno stretto oscure e blasfeme alleanze fin dalle epoche ignote in cui la materia principiò a contorcersi e sguazzare sulla crosta del pianeta appena appena freddatasi”). La curiosità (“Ma era il groviglio di cubi regolari, bastioni e aperture cavernose sui pendii, ad affascinarci e inquietarci più di ogni altra cosa”) e lo spirito d’avventura prevalgono sul terrore. I due malcapitati decidono di percorrere il labirinto archeologico (“Un’astrusità labirintica, fatta di irregolarità e curiose differenze fra i diversi piani…”) affidandosi alla tecnica di Pollicino per non smarrirsi (“Il nostro sistema della caccia alla lepre per segnare il percorso”), rabbrividiscono di fronte alle ciclopiche architetture (“L’insieme ricordava le rovine di Machu Picchu sulle Ande…”), interpretano le opere d’arte che testimoniano una civiltà antichissima (“Una forma di esaltazione culturale o religiosa … aveva patentemente incarnato l’essenza di quella conformazione a stella, non diversamente da come i motivi decorativi della Creta minoica esaltavano il toro, quelli egiziani lo scarabeo, quelli romani il lupo e l’aquila, e quelli delle più diverse tribù di selvaggi i loro totem animali d’elezione”), discendono nel ventre della terra (“Non avevamo rinunciato all’ambizione di vedere l’abisso…”) disposti a tutto pur di prendere visione degli orrori che lì si sono consumati.
Così penetrano i segreti dei primordi geologici e delle generazioni di antenati alieni, s’imbattono in creature mostruose (“Le mostruosità biologiche”), in altri delitti (“Erano i corpi del giovane Gedney e del cane mancante”) e in animali mutanti (“Una specie enorme e ignota, più massiccia dei più grandi esemplari conosciuti di pinguini reali, e mostruosa nel suo essere insieme albina e virtualmente priva d’occhi”), lambiscono la verità e fuggono inseguiti da un essere spaventoso che già Poe aveva descritto nel Gordon Pymm… 

Il romanzo è avvincente perché è un tassello nella mitologia (“I Grandi Antichi  scesi dalle stelle quando il mondo era giovane”) e nella teogonia lovecraftiana (“Le sculture narravano dell’arrivo dalle vastità cosmiche di quelle cose dalla testa a stella sulla neonata terra, ancora senza vita”), perché è una prova delle abilità descrittive del solitario di Providence (“Montagne lontane fluttuavano nel cielo come cittadelle incantate, e spesso il mondo bianco si dissolveva nella sua interezza in una terra d’oro, d’argento e di scarlatto, una terra di sogni dunsaniani e di avventurosa trepidazione, illuminata dalla magia di un basso sole di mezzanotte”), perché testimonia il fascino esercitato sullo scrittore dall’ansia della conoscenza (“Gli arabeschi mostravano un utilizzo profuso di principi matematici, ed erano composti da curve oscuramente simmetriche e angoli, tutti basati sul numero cinque”), dalle evocazioni storiche (“La mostruosa torre cilindrica… corrispettivo… delle mostruose torri o ziggurat dell’antica Babilonia”) e dalla fantasia (“Sembravano capaci di attraversare l’etere interstellare grazie alle loro possenti ali membranose”). 

Lo stile è incalzante, eccessivo, soffocante. In una parola, è lo stile che attrae i numerosi estimatori di Lovecraft… 

Bruno Elpis 

http://www.i-libri.com/libri/le-montagne-della-follia/