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Fatti e libri, rubrica di Bruno Elpis

Il giovane favoloso, o dell’incomprensione e della solitudine di Angelo Fàvaro

Dopo l’articolo critico su Pasolini di Abel Ferrara, la rubrica “Fatti e libri” torna a occuparsi di un altro letterato la cui figura ha recentemente ispirato la cinematografia. Stiamo naturalmente parlando di Giacomo Leopardi, “Il giovane favoloso” di Martone.
Anche per valutare il film da un punto di vista letterario ci affidiamo a un esperto: Angelo Favaro, che abbiamo già avuto modo di apprezzare nel precedente intervento e che nell’odierna riflessione fornisce un’interessante e partecipe rappresentazione di uno dei più grandi (il più grande?) poeti italiani. 

Il giovane favoloso, o dell’incomprensione e della solitudine di Angelo Fàvaro 

Laudi, laudi, laudi a Martone e al suo Leopardi (non a Leopardi): il film è stato accolto favorevolmente dalla critica, dal pubblico, dai professori di lettere, dagli studenti, dagli anziani e anziane in sala che ripetevano a memoria i versi del poeta, etc. etc.

Alla fine de Il giovane favoloso, film su e con Giacomo Leopardi, ci si sente avvolti in una spira di malinconia e di tristezza, di disperazione, forse perché quel che soprattutto viene proposto al pubblico è un uomo malinconico, triste, disperato. Non è certo quest’uomo quello che ho avuto la ventura di incontrare studiando (con Giulio Ferroni), nella mia prima annualità di letteratura italiana, l’Opera omnia del poeta recanatese. No! Il mio dialogo con Giacomo è stato molto, molto differente: ho conosciuto un uomo (non un giovane) estremamente complesso, uno studioso serio, attento e competente in discipline differenti, quello che oggi si chiamerebbe un filologo, un ricercatore e un critico di vaglia, direi quasi un figlio di quegli enciclopedisti francesi; e posso affermare, senza tema di smentita, che insieme alla poesia - Leopardi non è solo nei Canti o nelle Operette morali o nell’Epistolario o negli appunti dello Zibaldone, come vorrebbe indurci a credere Martone – c’è nell’ opera multiforme del recanatese una speculazione serrata sul nostro essere nel mondo, ci sono straordinarie traduzioni, riflessioni di linguistica e di storia, di antropologia e di sociologia, di morale e molto, molto altro. Basterebbe prendersi la briga di leggere veramente i suoi scritti!

Le location, i costumi, le ricostruzioni storiche, le pose attoriali, e gli attori stessi sono perfetti, le musiche adeguate, i movimenti di macchina arditi e la fotografia eccellente, il montaggio senza sbavature, stilisticamente un film girato da un grande maestro, che ha appreso insieme alla lezione di Rossellini e Antonioni, di De Sica e di Visconti, quella dei francesi della Nouvelle Vague e di Bertolucci, gettando l’occhio al cinema indipendente americano degli anni Ottanta, e tuttavia Martone non dimentica quanto ha appreso e conosce della messa in scena teatrale. Teatralità e cinema si fondono in un tutt’uno indistinguibile in questo film, il cui copione potrebbe perfettamente essere portato sulle tavole dei più nobili palcoscenici d’Europa, con pochi efficaci ritocchi. E io che misi in scena uno spettacolo dedicato a Leopardi (molti anni or sono: Notturno leopardiano) posso accertare quanto sia teatrale, fra l’altro, questo poeta - non solo poeta ma anche e soprattutto filosofo. Dallo Zibaldone emerge il pensatore disorganico ed eclettico, che non cerca tanto la costituzione di un sistema, ma quasi da uomo del Novecento tenta la via del frammento, della riflessione a margine, dell’aforisma sull’anima, sulla fisica e sulla metafisica, sulla religione e sulla civiltà, sulla natura, soprattutto sulla natura, non per disegnare l’organon ma per offrire alcune teorie, vagliate sovente alla prova della vita, della propria vita.

Elio Germano e Massimo Popolizio restituiscono, sequenza dopo sequenza nella prima parte del film, un Giacomo e un Monaldo nella loro complessità umana, intellettuale, ma soprattutto disegnano la trama di una relazione padre-figlio difficile da comprendersi oggi, e che tuttavia tale fu, almeno da quanto scaturisce dalla consultazione dei documenti. Un padre possessivo e che ama il proprio figlio a tal punto da non consentirgli di affrontare la vita fuori delle mura di Recanati. E se il padre offre al figlio con la biblioteca e gli studi il dono più vero e duraturo della formazione solida e completa, tuttavia nega al giovane la sua giovinezza. Forse un di più non necessario indugiare e indagare sulla sessualità di Giacomo e su come il padre se ne prenda cura.
Poeta e filosofo, ma né l’uno né l’altro vengono completamente analizzati e messi in schermo da Martone, che è più preoccupato dallo stile che dal soggetto del suo film: Giacomo non studia veramente, né veramente scrive, non cerca e non legge, ma per le due ore e mezzo di pellicola non fa altro che guardare, cambiando posizione, osservare dall’alto, dal basso, di traverso, disteso, in piedi, inginocchiato il mondo. Forse un paio di minuti seriamente impegnati a narrare quello studio “matto e disperatissimo” sarebbero stati più che sufficienti: fa ripetere a Elio Germano quel che Leopardi scrive in una lettera al Giordani «Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza tutto il resto è noia». Ma questa Recanati tanto detestata dal giovane è invece ripresa come un lustro, ameno borgo nel quale si vorrebbero rifugiare coppiette di intellettuali anglosassoni in primavera. E allo stesso Giordani scrive: «Di Recanati non mi parli. M'è tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee per un trattato dell'Odio della patria, per la quale se Codro non fu timidus mori, io sarei timidissimus vivere. Ma mia patria è l'Italia per la quale ardo d'amore, ringraziando il cielo d'avermi fatto italiano, perché alla fine la nostra letteratura, sia pur poco coltivata, è la sola figlia legittima delle due sole vere tra le antiche, né certo ella vorrebbe che la fortuna l'avesse costretto a farsi grande col francese o col tedesco, e internandosi nei misteri della nostra lingua compatirà alle altre e agli scrittori a' quali bisogna usarle». Perciò rassicura il destinatario della sua missiva: «Nondimeno Ella può esser certa che se io vivrò, vivrò alle Lettere, perché ad altro non voglio né potrei vivere».

È il tema della felicità quello che più sta a cuore al Leopardi poeta-filosofo-intellettuale, e questo argomento è poco, pochissimo indagato.

Avrei tanto desiderato che potesse cogliersi l’aspetto eroico e prometeico di Leopardi, ma fondamentalmente questo film non induce che a provare una magnanima compassione e una indubitabile comprensione umana per quest’uomo, forse ad ammirarne la poesia, ma non certo la lucidità intellettuale e l’energico rifiuto per tutto ciò che è vana illusione. Sufficiente rileggere quel passo dello Zibaldone del 19 aprile 1826, per comprendere la posizione di Giacomo: «Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di ?ori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle ?bre delicatissime, senza strage spietata di teneri ?orellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è róso, morsicato nei ?ori; quello tra?tto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zef?retto va stracciando un ?ore, vola con un brano, un ?lamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro». Titanismo e pietà (1957) intitolava un suo saggio su Leopardi Umberto Bosco, e ritrovo le riflessioni di un filosofo esistenziale ante litteram nella bellissima lettera che Leopardi invia allo Jacopssen (1823) e in molti altri scritti, anche nei celebri Paralipomeni alla Batracomiomachia (evocati alla fine del film). Non miti, non persuasioni, non illusioni, non ameni inganni, per dirla con un suo sintagma, ma l’urto con la vita, nella sua precaria e dolorosa consistenza, il Leopardi vuole disvelare ai suoi lettori. Non è il medesimo intento quello del giovane favoloso, che ripete e autorizza la vulgata di un uomo incompreso, sfortunato (o come ho sentito dire da un ragazzo in uscita dal cinema: uno sfigato), solo.

Sarebbe bastato forse rileggere questa considerazione di Giulio Ferroni, per offrire una alternativa all’immagine di Leopardi “sfigato” «Ecco, al Leopardi il dolore ha dato una capacità di comprensione del mondo, una lucidità assoluta. Però questo non significa che il dolore fosse una forma privilegiata: avrebbe preferito non soffrire. Allora, chi si serve del dolore per conoscere, riesce a farlo solo se protesta duramente e fortemente contro il dolore stesso. Il dolore è un'esperienza necessaria, inevitabile degli esseri umani, che però gli esseri umani riescono a vivere, a capire fino in fondo se in qualche modo protestano anche contro di essa, cercando di uscirne. Il confronto col dolore […] è anche una lotta contro il dolore, un modo di controllarlo, di servirsene per approfondire l'esperienza, per capire l'io e il mondo, ma anche per uscirne». Il dolore come protesta (si pensi al saggio di Walter Binni) o la protesta attraverso il dolore non emerge mai, in alcuna sequenza filmica.

Non potendo affrontare tutta la vita di Leopardi, Martone focalizza l’attenzione su un anno in particolare, il 1819, l’anno dell’Infinito, con incursioni e flashback abilmente dosati che narrano l’infanzia e la fanciullezza, e poi con un balzo di dieci anni (segnalato da una didascalia), fa ritrovare pubblico e attori dieci anni dopo a Firenze e poi a Napoli, con l’amico Antonio Ranieri (interpretato da Michele Riondino): Leopardi è sempre giovane, più curvo, deformato, ma giovane e giovanilmente ritratto, in fondo come se il tempo non fosse passato, e non tanto somaticamente, ma psicologicamente. E forse eccessivamente si è fidato e affidato alle parole del sodale Antonio Ranieri, così come sono espresse in quel volume Sette anni di mio sodalizio con Leopardi.

Film ultralirico, monologante, a-ritmico, non dispiace, perché compiace, ma non può piacere completamente perché caratterizzato da una prospettiva parziale e ancora una volta riduttiva. Così rimane un po’ più solo, un po’ più incompreso Giacomo Leopardi, «con la sua immedicabile tristezza» (Antonio Ranieri), mentre osserva la lava colare dal Vesuvio, che spazza via la sua ginestra.

Angelo Favaro

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