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Fatti e libri, rubrica di Bruno Elpis

Non nasce, ma muore ancora Pasolini nel film di Abel Ferrara di Angelo Fàvaro

Come sapete, questa rubrica propone una lettura dei fatti attraverso la lente della letteratura e/o si occupa di libri attingendo dalla realtà. Cerchiamo di compiere questa operazione abbinando un fatto a un testo, a un autore, a un evento letterario (o viceversa).
Questa volta, l’articolo che pubblichiamo trae ispirazione da due spunti: il film su Pasolini presentato alla mostra cinematografica di Venezia e il convegno che si svolgerà il 7 e 8 novembre 2014, organizzato dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa, friulano paese natale del compianto poeta-scrittore-regista-maître à penser (e di questo evento torneremo sicuramente a parlare in futuro).
Per realizzare l’intento, cedo la penna – o la tastiera? – al professor Angelo Favaro, studioso e critico di letteratura moderna e contemporanea, che ha scritto questo articolo per noi. 

Non nasce, ma muore ancora Pasolini nel film di Abel Ferrara di Angelo Fàvaro 

 

Oscuro e allucinato. Sadico. Drogato di vita, ma più di desiderio di morte. Maledetto, ma con parsimonia. Un film che racconta maldestramente, tremando e non capendo fino in fondo, restando epidermico, l’ultimo giorno di vita dell’indefinibile-inafferrabile Pier Paolo Pasolini (mi piacerebbe dire ineffabile). Delirio trasmutato e manipolato di informazioni biografiche. Come se, al cinema, la fine di una vita debba essere traduzione di un modello che non si vuole abbandonare. O la vita la si prende per totalmente assurda, o il significato dell’esistenza è nell’esistenza stessa, in sé e per sé affrontata. Razionale-redazionale, senza tesi né antitesi, con inserzioni parziali - e modestamente trattate - dal romanzo incompiuto Petrolio (da cui si cita, fra l’altro, una lettera inviata a Moravia, ma decontestualizzata, dunque incomprensibile) e dal film non realizzato Porno-Teo-Kolossal, questo “racconto in mi minore” di Abel Ferrara non si preoccupa dell’uomo-artista, ma dell’amante convulso e compulsivo di marchettari da fellare e penetrare. Frammentare, nevrotizzare e semplificare tutto, sempre: questa sembra essere la decisione da manuale del “pessimo” regista acclarata e acclamata nel montaggio insensato e banale, che più che raccontare frantuma e confonde, diffonde e sovrappone alle scene in interno le scene all’esterno senza legame alcuno, senza alcuna logica del passaggio, della transizione. Giocando con inghiottimenti nel buio o attraversamenti della luce. Non si entra e non si esce: ci si trova all’interno e ci si trova all’esterno. I cieli romani (diurni-notturni) catturano il regista e lo affascinano, molto meno di quanto riescano con il direttore della fotografia (Stefano Falivene). Non c’è nulla da dire sugli interpreti, se non che nell’intento registico del mimetismo assoluto (si pensi alle riprese del volto e delle mani di Dafoe) vengono deformati tutti e resi in tono minore, anche se macchiettisticamente.
Una farsa della metà degli anni Settanta, esattamente in maschera, con cose, costumi, ambienti perfettamente riprodotti, maniacalmente riprodotti - fino al recupero come fossero feticcio di oggetti realmente appartenuti a Pasolini - girata/diretta da Abel Ferrara nella farsa contemporanea.
Una farsa non una tragedia!
Vien fatto di domandarsi cosa abbia cercato Ferrara in e con Pasolini, cosa abbia trovato, dopo i lunghi anni nei quali afferma di aver pensato, lavorato, composto questo film, prima dentro di sé e nella relazione con Roma, e poi nella concreta realizzazione.
Ringraziamo Guido Santato, Enzo Siciliano, Graziella Chiarcossi e Nico Naldini (fra molti) che hanno scritto belle biografie o ritratti di Pasolini, che rimettono ordine nella nevrotica confusione di Ferrara. Non c’è equilibrio formale, né sostanziale, il caso-caos domina le sequenze filmiche ove si ibridano stili e motivi cinematografici differenti, non di rado opposti. Ferrara ha letto forse della poetica cinematografica pasoliniana, del cinema di poesia, ma probabilmente durante uno dei suoi “party”. Dov’è Pasolini? Forse solo nel titolo!
Il film sollecita un annoiato fastidio quando vuole stupire o scandalizzare: ma non stupisce, non scandalizza, ormai del Pasolini uomo, omosessuale, osservatore e indagatore dei ragazzi di vita (letterariamente li ha inventati lui!!!) si sa tutto, del poeta, del romanziere, del polemista, del regista Ferrara non parla, non vuole parlare, perché quel che conta è raccontare, per giungere vivamente, crudamente, inesorabilmente a quella notte nella quale all’idroscalo di Ostia, con il suo ranocchietto (Pino la rana – Pino Pelosi), dopo la cenetta al Biondo Tevere, dopo la corsa in macchina e la fellatio, non il poeta, il romanziere, il polemista e il regista viene massacrato, ma soltanto un frocio! Questo è riduttivo, inaccettabile, inconcepibile!
E non si comprende come questo film possa aver avuto finanziamenti dall’augusta Direzione Generale per il Cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Nella notte fra l’1 e il 2 novembre, del 1975, Pasolini morì, sono ormai 39 anni. È vero che quel poeta era ormai divenuto l’astioso polemista che dalle colonne del Corriere della Sera lanciava strali contro tutto e tutti, dal suo punto di vista di artista gramscianamente impegnato; è indubitabile che il suo bersaglio sono le manifestazioni, le sedi, le manipolazioni del potere; è certo che la sua intelligenza è offesa dalla metamorfosi di un’Italia che perde l’identità abbrutendosi nella inciviltà dei consumi. E tuttavia non si può dimenticare che se Pasolini scrive, filma, continua a creare è perché ha la profonda consapevolezza che l’espressione artistica muta, può ancora mutare il mondo.
«Vorrei che tu tenessi conto, nel consigliarmi, che il protagonista di questo romanzo è quello che è, a parte le analogie della sua storia con la mia, o con la nostra - analogie ambientali o psicologiche che sono puri involucri esistenziali, utili a dare concretezza a ciò che accade nel loro interno - esso mi è ripugnante: ho passato un lungo periodo della mia vita in sua compagnia, e mi riuscirebbe molto faticoso ricominciare da capo per un periodo che sarebbe presumibilmente ancora più lungo. .Certo lo farei, ma dovrebbe essere assolutamente necessario. Questo romanzo non serve più molto alla mia vita (come sono i romanzi o le poesie che si scrivono da giovani), non è un proclama, ehi, uomini! io esisto, ma il preambolo di un testamento, la testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accumulato, ed è completamente diverso da quello che egli aspettava» questa la conclusione della lettera che Pasolini indirizza a Moravia dalle pagine del manoscritto di Petrolio, lettera che Moravia ignora e alla quale non può rispondere direttamente, lettera che udiamo nella parte iniziale del film e che poi si perde nel puzzle dei fotogrammi filmici. Pasolini non aveva scritto un testamento, come vorrebbe lasciare intendere Ferrara, ma si interrogava sulla forma-informe del romanzo, e si interrogava aprendo un dibattito con Moravia, uno dei tanti dibattiti nei quali si erano impegnati i due amici. In quella lettera c’è il rovello di un intellettuale e di un artista che obietta alle forme e ai contesti consolidati e che si stanno consolidando esprimendo il proprio disagio, che è il disagio di un’intera civiltà. Quest’anno il convegno organizzato dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa (7 e 8 novembre 2014 http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/ ) si intitola Pasolini e il politico, esattamente quel che viene praticamente espunto dal film di Ferrara, insieme a molto altro. È questa sostanziale presenza (corporea) politica di Pasolini che inquieta e non lascia tranquilla l’Italia: era già pronto quel discorso che avrebbe dovuto tenere al XXXV congresso del Partito Radicale, che fu letto da Vincenzo Cerami, e in quel discorso si ribadiva: «A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti.  B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano.  C) Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli). D) Ci sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene, tanto peggio per gli sfruttatori.  E) Ci sono degli intellettuali, gli intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati». E questa lucidità di pensiero e di intenti sarebbe sufficiente a coprire di vergogna il film di Ferrara!
Le citazioni si affollano, i personaggi si mescolano, e il film davvero non persuade, non restituisce nulla. Nonostante la apprezzabile colonna sonora, è un film pasolinianamente brutto!
Se come diceva Pier Paolo «la vera morte è nel non esser più compresi», allora questo film uccide nuovamente il poeta, il romanziere, il cineasta, e ci ricorda che se si nasce una sola volta, non si finisce mai di morire. 

Angelo Favaro 

http://www.i-libri.com/fatti-e-libri/non-nasce-muore-pasolini-nel-film-abel-ferrara-angelo-favaro/