Le recensioni di Bruno Elpis
Un conto aperto con la morte di Bruno Morchio (i-libri)
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- Scritto da Bruno Elpis
“Un conto aperto con la morte” di Bruno Morchio è il sequel de “Lo spaventapasseri”, il romanzo che abbiamo presentato a questo link intervistando l’autore.
Oggi proponiamo una nuova formula d’interazione con uno degli scrittori alla ribalta del noir nostrano, coinvolgendolo nel nostro commento.
Nel nuovo romanzo, finalista al Premio Nebbia Gialla 2015, ritroviamo Bacci Pagano, il tormentato detective che vive e lavora a Genova, drammaticamente ferito nel corso di un attentato e in attesa di subire un intervento rischiosissimo alla colonna vertebrale: una prospettiva che, per l’appunto, presuppone “Un conto aperto con la morte”.
Il magnetico, bello e dannato Bacci vive la propria condizione invalidante (“Imbragato com’era nello scafandro ortopedico”) tra le mura del suo appartamento, assistito dall’amata figlia Aglaja, con l’assillo di scoprire ragioni e responsabili dell’attentato che l’ha colpito così duramente (“Perché tu… resti convinto che l’attentato contro di te sia collegato all’omicidio (Adele) Semeria”).
L’amico di sempre, quel senatore Cesare Almansi tanto affascinante e donnaiolo quanto ambiguo nei suoi rapporti con l’investigatore (“Qual è stato il bluff di Almansi?”), ha un’idea bislacca per distrarre l’ex compagno del liceo dal dolore fisico e affianca a Bacci uno scrittore che avrà il compito di trasporre sulla carta stampata una delle avventure che abbia il detective come protagonista.
Nella cornice genovese ove i ritratti dell’eroe Pagano (“Diventerai un detective di carta?”), del romanziere Gian Claudio Vasco (“Il mio ruolo è quello di un alter ego”) e – perché no? – del nostro interlocutore Bruno Morchio si sovrappongono e si rapportano continuamente (“… Aveva ragione Dürrenmatt… a sostenere che le indagini reali sono tutt’altra cosa rispetto a quelle di cartapesta dei nostri romanzi. La finzione sarà buona per intrattenere il pubblico, ma ha poco a che fare con la fatica, la frustrazione e l’incertezza delle inchieste dove i morti non sono funzioni narrative ma corpi in putrefazione e gli assassini individui certificati dall’anagrafe e non antagonisti”), anche noi lettori siamo chiamati a colloquiare in una dimensione che relaziona realtà e finzione, personaggi reali e protagonisti della storia di fantasia.
D – Bruno, come nasce questa idea di simbiosi? Una esigenza di realismo, il desiderio di esporti in prima persona o un esperimento creativo?
Bruno Morchio – Direi un esperimento letterario, un gioco di piani tra finzione e realtà. Nei capitoli finali anche il lettore si trova coinvolto: quando Vasco porta a Bacci il dattiloscritto ultimato, dice esplicitamente che quello è il testo che il lettore (che ha avuto la pazienza di leggere fino a quel punto) si trova sotto gli occhi. Non a caso due capitoli del romanzo si intitolano “Finzione e realtà” e “Letteratura e vita”. Qualcuno (per la precisione Annarita Briganti, la scrittrice che mi ha presentato al Nebbia Gialla) ha parlato, con una punta di ironia, di “meta-noir”. Nel romanzo il rapporto tra letteratura e realtà ritorna quasi ossessivamente, in forza di una mia convinzione profonda: la letteratura si alimenta di esperienza, ma anche di letteratura, e talvolta quest’ultima – in quanto veicolo privilegiato di conoscenza del mondo – può diventare uno strumento di comprensione della realtà.
Ancora una volta, Bruno Morchio utilizza la sua penna sapiente e accattivante a mo’ di scalpello, per scolpire il profilo dei suoi personaggi e per scavare nel loro passato. Un passato vissuto con la nostalgia di chi ricorda gli anni Settanta come un’epoca di ideali e ideologie (“… Gli anni di piombo… se guardiamo al benessere diffuso, alla redistribuzione del reddito e alle garanzie sociali, sono stati un periodo felice per l’Italia… i veri anni di piombo sono quelli che viviamo oggi”).
D – Da dove deriva questo sentimento retrospettivo? Dalla ricchezza culturale del passato o dalla povertà ideologica del presente? O forse il motore è semplicemente il richiamo della gioventù?
Bruno Morchio – Entrambe le cose. Alla mia età il passato acquista una forte valenza evocativa ed è inevitabile che sia così. È anche vero che, in Italia e in Europa, gli anni Settanta sono stati anni di grandi conquiste sociali e culturali che la globalizzazione capitalistica sta smantellando pezzo a pezzo, allargando la forbice tra ricchi e poveri e surclassando non solo il proletariato, ma lo stesso ceto medio. Il problema è che la nostalgia non è un buon viatico politico e non porta da nessuna parte. La memoria e la valorizzazione delle proprie radici diventano feconde solo se si riesce a guardare al futuro, a plasmarlo forti di un progetto che al sogno sappia unire la dura consapevolezza della realtà. Questa per Bacci ora è un’operazione difficile, perché non sa se per lui ci sarà un futuro.
Accanto alla profondità soggettiva e fattuale del romanzo, un’altra caratteristica stilistica colpisce e ha il potere di attrarre anche il lettore sofisticato che ama trovare nei romanzi qualcosa che vada al di là del semplice intreccio poliziesco. Bruno Morchio si avvale spesso di riferimenti letterari (“Come Smerdjakov… il servo di Ivan Karamazov?”) che agiscono non soltanto da raffinato sottofondo, ma sono anche elementi che nella trama esercitano un ruolo attivo.
D – Così agisce Dostoevskij (“Distruggo la mia vita di mia volontà e per mio desiderio, non accusate nessuno”) nel “conto aperto con la morte”, vero?
Bruno Morchio – Verissimo. Come già era accaduto ne “Le cose che non ti ho detto”, dove la lettura di alcune pagine di Proust suggeriscono a Bacci la chiave per sciogliere un nodo della vicenda del Gigante, di sua moglie e della giovane Viki, così qui il rapporto tra Ivan Karamazov e il servo Smerdjakov gli fornisce l’idea per comprendere la complessa relazione tra Almansi e l’amico Coiro.
Completa il quadro di quest’opera, che consigliamo, l’immancabile ambientazione genovese (“… Definisci la città una location? Non ti sei accorto che Genova è molto di più? È un luogo dell’anima e della memoria, un’aria che si respira, un modo di essere e di guardare al mondo…”), nel dilemma finale che il romanziere Vasco e il protagonista Bacci dovranno inevitabilmente affrontare per licenziare e consegnare alle stampe il manoscritto concluso con la soluzione del caso criminale.
D – Perché la tua Genova non è soltanto un luogo geografico, ma è un vissuto, una comunità, un luogo azzurro e contrastato. Bruno, lascio a te l’onere di concludere su questo punto…
Bruno Morchio – Perché Genova è molto di più che un fondale, uno scenario. La sua anima, la sua storia, le sue luci e le sue ombre, i vizi e le virtù della sua gente, sono radicate nell’esistenza e nella memoria del protagonista (che in tutti i romanzi, fuorché in questo, costituisce la voce narrante). La vita di Bacci si è sgrovigliata per le strade della città, e ogni volta che ne percorre una un ricordo prende vita e lascia fiorire un’emozione. Bacci (e il suo autore) non descrive Genova, la vive, con la mente e con il corpo, attivando tutti e cinque i sensi per raccontarla.
Ringraziamo Bruno Morchio per la disponibilità che dimostra nel colloquiare amabilmente con i suoi lettori.
Bruno Elpis
http://www.i-libri.com/libri/un-conto-aperto-con-la-morte-dialogando-con-lautore/