Le recensioni di Bruno Elpis
Quando le chitarre facevano l’amore di Lorenzo Mazzoni (i-libri)
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- Scritto da Bruno Elpis
Lorenzo Mazzoni colloca nelle adiacenze del ’68 la storia di “Quando le chitarre facevano l’amore”.
L’idea originale di questo romanzo è quella di addensare nell’azionismo pulp di una vicenda surreale le atmosfere sfrenate e il clima greve di tensioni di un’epoca irripetibile per creatività e ricchezza ideologica.
L’occasione narrativa viene fornita dalla caccia ingaggiata contro Martin Bormann (“Il discreto servitore nell’ombra. Colui che aveva suggerito all’orecchio del capo il rogo della Notte dei Cristalli, la Gnadentod per dare il colpo di grazia ai minorati psichici, la conferenza di Berlino-Wannsee per la Soluzione finale”), nazista scampato in modo rocambolesco alla sconfitta (“Il capo che si uccide, il leggero corpo della signorina, anzi signora Braun trasportato fuori”) e fuggito nel Nuovo Mondo al pari di molti colleghi (“Le zone ricche di Buenos Aires… andavano velocemente riempiendosi di ufficiali nazisti, ustascia croati, fascisti italiani”).
Dalle rive etniche del lago Atitlan, ove è in pieno svolgimento il ciclo biologico delle farfalle monarca, Luigi Portaleone (“Nutro un profondo rispetto per il signor Wiesenthal”) viene incaricato dall’esuberante Lolicia Smith (“M’interessa lui. E so dove si trova”): “Dovrà portarmi Martin Bormann, il devoto segretario di Hitler che conserva tutti i segreti del delirio nazista”.
Perché pare che il gerarca (“Si fermò ad Anita. C’era un negozio in vendita… E intanto finanziava i Love’s White Rabbits, la più grande, genuina, autentica band di guerriglia musicale della contea”) si sia completamente riciclato in Texas (“Aiuto a costruire un nuovo sogno americano per questi figli della rivoluzione”).
Ma Luigi non è l’unico agente (“Lo so che un agente segreto queste cose non le chiede, ma per chi lavoriamo? Per la CIA?”) sguinzagliato sulle tracce di Bormann. La cittadella immaginaria di Anita (“Anita è stata fondata da un italiano”) diviene calamita per i finti messicani José e Ramirez, alias Daniel e Adam (“Lo sai. È la copertura. Quel bastardo vive in una comunità hippie. Dobbiamo sembrare dei capelloni messicani”), forse affiliati al Mossad e certamente capitanati dal “Vecchio”. Anita è anche polo di attrazione per un sosia del presidente del Guatemala (“Un non vedente guatemalteco, un artista completo… Paco Ignacio”) e meta di un reduce del Viet-Nam (“Soldato Roberto Dohrn. Secondo battaglione del ventiseiesimo reggimento Marines”), che cova propositi di vendetta contro i Love’s White Rabbits per una delusione d’amore ingigantita dalla follia della guerra.
Sullo sfondo di fatti storici quali l’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy, la guerra in Indocina e il conflitto mediorientale (“Il 5 giugno scoppiò la guerra dei Sei Giorni, che si concluse con l’occupazione israeliana del Sinai, della Cisgiordania, delle alture del Golan e di Gerusalemme Est”), le sommosse studentesche, per giungere sino alla primavera di Praga (“Questa notte i veicoli corazzati russi hanno invaso la Cecoslovacchia”) e alla repressione in occasione della Convention democratica di Chicago, il romanzo ha la colonna sonora del pop (“Si chiamano Beatles e la canzone s’intitola I saw her standing there”), dei grandi eventi musicali (“Our world in tv. C’erano i fiori, c’erano giovani ricoperti di ghirlande e c’erano i Beatles che eseguirono All you need is love”), di Bob Dylan e della Bamba di Richie Valens (“Era un omaggio allucinato alle origini culturali di quei giovani studenti”), perché il 1968 è “un buon momento per la musica. E per l’energia”.
Nel testo di Lorenzo Mazzoni ritroviamo i ritmi “on the road” della beat generation, lievi impronte di una filosofia rivoluzionaria (“Leggere gli incomprensibili testi di Marcuse e Ginsberg”) che oggigiorno è reperto fossile, le atmosfere allucinate e lisergiche (“Spostò lo sguardo sul falò. Le fiamme emanavano bagliori blu, viola, verdi… Ogni tinta assumeva i contorni di disegni bellissimi. Pavoni, principesse siriane, liane di perle, batuffoli di nuvole rosa, danzatrici di calypso, Atlantide”) di un’età sulla quale si riversano ricordi e nostalgie, le “sinapsi celestiali e sinestesie psichedeliche” in combinazione eclettica ove chitarre, bassi e tastiere divengono voci narranti, mentre lo scheletro del garibaldino fondatore di Anita (“Willie Levan non si mosse dalla sua eterna posizione morta”) è feticcio di dissacrazione e la tartaruga Penelope è la mascotte che i protagonisti si palleggiano quasi per sopravvivere agli attentati. Il finale, coerentemente con la storia, non può che essere “un finale di gruppo”, al quale – in pieno far west - partecipano CIA, FBI, sceriffi... e naturalmente i Love’s White Rabbits e la loro strumentazione parlante.
Bruno Elpis
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