Le recensioni di Bruno Elpis
Sogni di Bunker Hill di John Fante (Lettori Autori
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- Scritto da Bruno Elpis
Sogni di Bunker Hill di John Fante è il capolinea, la tappa conclusiva di un ciclo che incorona Arturo Bandini re del fallimento in ogni esperienza: lavorativa, amorosa, vitale.
Arturo è a Hollywood, ove trova occupazioni discretamente retribuite (“Dopo due settimane presi il mio primo stipendio, seicento dollari”), ma che lo lasciano completamente insoddisfatto sul piano creativo (“Era specializzato in film di gangster e, se guardavi con attenzione, scoprivi che tutti i suoi copioni erano sostanzialmente uguali: stessa trama, stessi personaggi, stessa moralità”).
Le sue frequentazioni sono dispersive e improduttive, sia nelle amicizie (“Avevo fumato marijuana un’altra volta, a Boulder, ed ero stato male…. In un attimo eravamo nudi, ballavamo in circolo facendo versi che credevamo simili a grida indiane”), sia nelle conoscenze professionali (“Continuava a veleggiare tra nubi di fantasticherie, sorseggiando caffè, accendendosi sigarette, sognando l’assurdo, evocando l’incantesimo di affascinanti bugie e impossibili mondi che si era costruita per sé”). Per questo, decide di isolarsi in un bungalow nella quiete litorale (“A volte sentivo il latrare delle foche”), ove frequenta uno stravagante vicino dotato di possente fisicità e facile alla lite (“Sono figlio del Principe di Sardegna. Anche campione del mondo”).
Le relazioni con le donne permangono problematiche: l’altro sesso viene visto come infido (“Si muoveva come un serpente, un grosso serpente, un lussurioso boa constrictor”), una terra di conquista proibitiva (“Thelma Farber… a volte non mi salutava nemmeno”)… Soltanto il rapporto con la proprietaria dell’albergo ove Bandini soggiorna sembra sfuggire a questa regola: la signora Brownell, donna assai matura, è una figura benevola (“Stavamo bene insieme, Helen Brownell e io”), che lo leva dai guai in più occasioni, e sembra sostituire la mamma, che lo raggiunge con qualche saltuaria lettera (“Porta la tua medaglietta per protezione. Vai a messa, cerca di incontrare qualche brava ragazza cattolica…”).
Nel finale Bandini sembra intravedere nel ritorno alle origini familiari una forma emostatica di convalescenza esistenziale (“Dove potevo sentirmi ben accetto, dove potevo sedere tra persone che mi amassero, che si interessassero a me, che fossero fiere di me?”), nella neve del Colorado e nell’abbraccio (“Il cappotto aveva il calore del suo corpo. Era una parte integrante della mia vita…”) del padre redivivo (ne “La strada per Los Angeles” Bandini è orfano!), in un implicito desiderio di quiete dopo tanto smaniare, immaginare, ambire…
La critica di Tondelli (“Fante – scrive Tondelli – sceglie Hollywood per salutare il mondo. Sceglie, con la sfrontatezza che solo ora abbiamo imparato ad amare, il centro vitale della sua nevrosi: il paradiso-inferno di Bunker Hill”) sottolinea efficacemente come l’ultimo capitolo del ciclo di Arturo Bandini consenta all’autore di trasporre in forma narrativa le proprie esperienze deludenti, riproducendo l’illusorietà della mondanità e l’illusione della celebrità attraverso una poetica graffiante e ruvida.
Bruno Elpis
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