Le recensioni di Bruno Elpis
Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini (i-libri)
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- Scritto da Bruno Elpis
Ragazzi di vita, ovvero la vita di ragazzi nell’opera di Pier Paolo Pasolini, mente raffinata che riproduce lo spaccato di una classe confinata nel sottoscala della piramide sociale e nell’essenzialità primordiale. Per questa rappresentazione PPP sceglie.
Come tempo: un’epoca di ripartenza e dannazione, il secondo dopoguerra (“In quei due anni, dopo l’arrivo degli Americani… il Riccetto s’era fatto fijo de na mignotta completo”).
Come spazio: le borgate (“In fondo, nel gran tepore, brillavano i lumi delle altre borgate, fino a Centocelle, la Borgata Gordiani, Tor de’ Schiavi, il Quarticciolo”), la desolazione delle periferie fatte di “praticelli zozzi”, di “viuzze livide” e di “qualche stradetta tutta buche”, la quotidianità di scene popolane (“Con le donne che venivano a distenderci i panni sull’erba bruciata”), la plasticità della giocosità spontanea (“Tra centinaia di maschi che giocavano sui cortiletti invasi dal sole”), le acque torbide del Tevere (“I fiumaroli che prendevano il sole sul galleggiante”) e dell’Aniene, la litoranea congestione di Ostia (“Il mare sfolgorava come una spada, dietro il carnaio”).
Come protagonista: il sottoproletariato in età infantile e adolescenziale (“Si accucciavano, prendevano la mira, e zac, col palmo della mano puntato a terra, la pallina schizzava in buca”).
Come linguaggio: l’espressività gergale, l’interiezione insolente, l’intercalare volgare, il romanesco spinto e sfacciato.
In Ragazzi di vita, Pasolini compie un’operazione, penso, difficilissima per chiunque, non per lui: si spoglia della propria natura sofisticata d’intellettuale e riduce la narrazione a qualcosa di primitivo e rudimentale, per osservare i protagonisti conservando per loro qualche sprazzo di tenerezza (“la nuca piena di riccioletti”) che si esprime in vezzeggiativi (“un altro maschietto come lui, che veniva avanti allegro come un rondinino”) e immagini (“il ragazzetto… giocando cinguettava allegro”) tracciate senza mistificazioni retoriche.
In questa attività scompositiva, PPP accosta scene di naturalismo estremo, incalza con descrizioni da incubo urbano (“I praticelli lerci pieni di montarozzi per dove i tram facevano il giro”), propone la vita nella sua forma più elementarecome sequenza di istinti minimali e necessità primarie: la fame, il divertimento (“Quanto me piacerebbe de famme na gita ‘n barca!”), il sesso consumato in modo animalesco (“Te va de intigne?”), magari con prostitute incinte (“la Elina… c’aveva na panza grossa come na tinozza, mo starà ar Poricrinico a fa er fijo”), la sopravvivenza talvolta automatica, per lo più conquistata con adattamento e lotta darwiniana. Si disegna così, in re ipsa, una drammatica parabola che vede il Riccetto transitare dalla pietà genuina (“Era proprio una rondinella che stava affogando”) all’indifferenza vile per un compagno che affoga (“I tre maschietti gli venivano dietro, Genesio, con la pelle di liquerizia e gli occhi di carbone, in disparte, sornione, e gli latri due che trotterellavano come cuccioletti…”), passando attraverso le esperienze del furto raffazzonato (“Sì, e chi ce passa ‘a grana… A locco, se va a tubbature pure noi…”) e del borseggio improvvisato, la condizione di orfano (“Il Riccetto dopo la disgrazia delle Scuole… era andato ad abitare a Tiburtino, lì dai parenti suoi”), le frequentazioni meccaniche (“Con Rocco e con Alvaro, che dai furti dei chiusini erano passati mano a mano a dei lavori molto più impegnativi e di responsabilità… Ormai il Riccetto se la faceva più con loro due che con i pivelli dell’età sua, ossia quelli ch’erano entrati in quattordici anni”) o prezzolate (“… mostrò tre piotte tutte ciancicate… è passato uno, spiegò, e me l’ha date senza niente… pe’ tastà un momento”), le bische, i refettori per i poveri, le truffe e gli espedienti, le occupazioni instabili, (“S’era messo a lavorare. Faceva l’aiutante di un pesciarolo che aveva banco lì al mercatino della Maranella”), il randagismo, l’ingiusta prigionia. Tra un nugolo di coprotagonisti nei quali sembra latitare ogni dimensione sentimentale e ogni anelito a qualcosa che si discosti dalla fattualità disperata e grezza. Nella coralità di classe, l’individuo si staglia per un’esteriorità (“Amerigo… teneva il baveri della giacca rialzato, la faccia era verde sotto i ricci impiastricciati di polvere, e i grossi occhi marroni che fissavano invetriti”), per un gesto (“Il Riccetto… si tolse il pettinino dalla tasca di dietro dei calzoni, lo bagnò sotto la fontanella e cominciò a pettinarsi, bello come Cleopatra”), per un atteggiamento (“Il Riccetto camminava avanti, in canottiera, grassoccio, e tutto lucido per il bagno, facendo sempre la camminata malandrina”), per una propria forma di cattiva sorte (“Il Riccetto abitava alle scuole elementari Giorgio Franceschi… C’erano stati lì prima i Tedeschi, poi i Canadesi, poi gli sfollati e da ultimo gli sfrattati, come la famiglia del Riccetto”).
Questo esperimento (per certi versi non ricorda l’operazione compiuta da Giovanni Verga con i Malavoglia?) di spogliazione ancestrale e di riproduzione narrativa da una visuale privilegiata e borghese meritava dunque un processo per oscenità?
Bruno Elpis
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