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Le recensioni di Bruno Elpis

La strada per Los Angeles di John Fante(i-libri)

coverLa strada per Los Angeles fu scritto da John Fante nel 1933, ma – continuamente rifiutato dagli editori (dalla prefazione di Emanuele Trevi: “Nessun editore… se la sentì di mandare alle stampe un esperimento così sconcertante.. trafila di rifiuti… bisognava davvero aspettare … nel 1985…”) – venne pubblicato postumo quando l’astro dello scrittore italo-americano cominciava a brillare grazie agli apprezzamenti di Charles Bukowski.

Trattasi del secondo incontro con l’Arturo Bandini che abbiamo conosciuto in “Aspetta primavera Bandini”, qui divenuto diciottenne, ormai orfano del padre Svevo, con una situazione familiare discontinua rispetto al prequel: là Arturo aveva due fratelli e una madre esaurita, qui vive con la madre dal carattere fragile e con la bigotta sorella Mona in una misera casa di Wilmington, ove il nucleo campa anche grazie all’aiuto dello zio Frank.

E se nel primo episodio Arturo sognava di diventare un campione sportivo, in “Strada per Los Angeles” l’ambizione  conclamata è quella di diventare un grande scrittore (“Al Jim’s Place: Tu leggi un sacco. Hai mai provato a scriverlo, un libro? Quello fu il momento. Decisi allora che volevo diventare uno scrittore”). Intanto il futuro genio letterario si barcamena con lavoretti saltuari e mal pagati, e così approda al conservificio della Soyo Company (“Mio zio… un lavoro, disse. Alla fine mi aveva trovato un lavoro”), che odora di pesce e di povertà. 

John Fante descrive l’età tardo-adolescenziale coniugando l’onanismo praticato nello stanzino dei vestiti con i deliri di mitomania (“Io, come dicevo, sono un scrittore. Interpreto la realtà americana. Mi trovo qui per raccogliere materiale per il mio nuovo libro”) del giovane protagonista, attratto da autori che legge più per posa che per interesse reale: “Vacci Arturo. Leggi Nietzsche. Leggi Schopenhauer…”
“… Aveva l’élan vital. Ah, Bergson! Un altro grande scrittore…” 

Sono spassosissime le descrizioni del presunto capolavoro composto da Bandini (“Era la storia appassionata degli amori appassionati di Arthur Banning… la mia abilità nell’uso della reticenza sia pure in un climax incandescente”), che poi viene sottoposto al giudizio della madre (“Non mi è piaciuta quella storia con la ragazza cinese….E non mi è piaciuta quella storia con quella eschimese…Il punto in cui va a letto con le ragazze del coro. Non mi è piaciuto nemmeno quello”) e della sorella (“L’eroe era abietto. Commetteva adulterio quasi a ogni pagina”), e suscita la reazione prima adirata poi soffocata di Arturo (“La tua opinione non mi tange punto”). 

Il passaggio alla narrazione in prima persona (dalla terza utilizzata in “Aspetta primavera, Bandini”), l’ironia con la quale viene delineata la contrapposizione tra la megalomania di Arturo (“Ah, suonava splendidamente. Arturo Gabriel Bandini. Un nome da includere nella lunga serie degli immortali: un nome per i secoli dei secoli”) e la modestia della vita reale, la sottile critica alle convenzioni del vivere civile sono tutti elementi che trasformano la farneticante interpretazione del protagonista nell’interessante plastico dell’antieroe.

Bruno Elpis

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