Doctor Sleep feat. Shining (Lettori autori)
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- Categoria: Stephen King
- Scritto da Bruno Elpis
L’atteso remake di Shining soffre della sindrome del sequel. Ciò equivale ad ammettere che, come tutti i seguiti di un’opera di grande successo, anche “Doctor Sleep” di Stephen King:
- patisce il complesso d’inferiorità rispetto al precedente, talvolta inaspettato, trionfo planetario;
- soggiace alle regole del profitto a ogni costo. Un sequel viene prodotto con lo spudorato obiettivo di bissare i guadagni realizzati dal precedente. Ciò significa generalmente mettere a budget il risultato di moltiplicazioni successive. Numero di pagine x ricavo unitario desiderato = prezzo del libro; prezzo del libro x numero copie = fatturato atteso…
- la narrazione è inevitabilmente ostaggio della preoccupazione di rendere il seguito credibile e sufficientemente ricollegabile all’episodio originario.
Soltanto l’abilità e l’esperienza di Stephen King “salvano” il nuovo prodotto, anche se il lettore – soprattutto nel corso della prima parte del libro – continua a chiedersi se cinquecento pagine erano tutte, ma proprio tutte, necessarie. Inevitabili poi sono i confronti con “Shining”: impossibile non rivedere mentalmente le immagini di un Jack Nicholson tanto fulminato quanto appropriato al ruolo…
Nella nuova vicenda che ha per protagonista Dan Torrance, il bambino “luccicante” di Shining, i tentativi di ancorare la nuova storia alla precedente – quasi fosse una garanzia o un’assicurazione a prova di bomba – sono evidenti e disseminati in tutto il testo.
Alcuni fatti vengono esplicitamente rievocati (“Era stato Jack Torrance a vibrare colpi di mazza che avevano fatto saltare i denti finti di Dick e costretto Wendy a zoppicare per il resto della vita, ma entrambi sapevano che il vero colpevole era quel dannato albergo”), alcuni personaggi ritornano (“Poi arrivò la voce di Dick Hallorann. No bello mio. Puoi chiudere le apparizioni dell’Overlook dentro le cassette di sicurezza, ma non i tuoi ricordi. Mai e poi mai. Sono loro i veri fantasmi”), i ricordi e le visioni abbondano (“Chiuse il pensiero in uno scomparto della mente. Ormai era diventato bravo a farlo. Quel ripostiglio segreto ne conteneva di ogni”).
La maledizione di Jack Torrance-Nicholson impazza sia nelle coincidenze (“Tanto tempo fa suo padre si era ritrovato seduto in una stanza come quella, in occasione del colloquio per il posto di custode all’Overlook Hotel. Che cosa gli era passato per la testa?”), sia in sentimenti familiari contrastati (“Era strano sentirsi vicino a un uomo che l’aveva quasi ammazzato, ma non poteva farne a meno”), sia nella tendenza all’alcolismo (“Dio solo sapeva quanto desiderasse essere diverso dal padre, i cui rari momenti di sobrietà erano stati forzati e di breve durata”).
Anche i luoghi sono terribili coincidenze: nella fase della riabilitazione di Dan (“Lui si trovava a Frazier, nel New Hampshire, e stava dormendo mentre una tormenta di neve primaverile imperversava fuori dalla pensione della signora Robertson”) e nello scontro finale contro il Vero Nodo (“Si trovava in un posto magnifico, dove un tempo sorgeva uno dei più famosi alberghi del mondo”; “Un posto malvagio attira esseri malvagi”).
Infine, non possono mancare le riedizioni delle antiche maledizioni: “Sullo specchio, scritta con il sangue e non con il rossetto, spiccava un’unica parola: REDRUM”.
Il romanzo, alla fine, diverte e i fan di King saranno soddisfatti.
Io, che ho apprezzato la senescente inclinazione malinconica di Joyland, rimango con qualche dubbio. Primo fra tutti, che “Doctor Sleep” soffra della sindrome del sequel.
Bruno Elpis
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