Le recensioni di Bruno Elpis
Medea di Lucio Anneo Seneca (qlibri)
- Dettagli
- Categoria: Recensioni
- Scritto da Bruno Elpis
“Maestra di delitti”
Nella tragedia in cinque atti Lucio Anneo Seneca dipinge la sua versione di Medea che risente del personale punto di vista dell’umanista e filosofo latino: quello dello stoico (“Le grandi ferite, chi può restituirle? Chi le sopporta in silenzio, con animo fermo”) che condanna senza appello chi agisce lasciandosi dominare dalle passioni (“Frena la tua furia. Come una Menade…. Con gesti selvaggi, mostrando in volto i segni di un furore delirante. Il suo viso è in fiamme, il respiro affannoso… Il suo furore trabocca…”).
La tragedia si svolge tra Medea e il coro, nei dialoghi in successione con la nutrice, Creonte e Giasone. Nell’atto finale Seneca utilizza la rappresentazione scenica dell’infanticidio, mentre nella tragedia greca classica questo evento viene narrato in modo indiretto.
Già nel prologo Medea viene raffigurata non come vittima tradita e abbandonata, bensì come maga evocatrice di forze maligne (“Ora dovete venire, dee vendicatrici dei delitti, Furie…”), sospinta dal desiderio di compiere una tremenda vendetta (“La morte, date la morte”) nella scia di morte della quale è dispensatrice (“La casa che hai avuto col delitto, col delitto devi abbandonarla”) fin dalla sua fuga dalla Colchide (“Lui che mi ha strappato al padre, alla patria, al trono, ora mi abbandona in terra straniera? Ciò che ho fatto per lui, quel crimine che gli consentì di vincere il mare e le fiamme, l’ha dunque dimenticato quel crudele?”).
Il profilo della strega (“La sua perfidia, le sue arti, chi non le conosce”) si delinea anche nel colloquio con il re Creonte, che oppone a lei una nuova declinazione di Giasone (“Il sangue non ha contaminato la sua innocenza… è rimasto puro lui… Tu macchinatrice dei peggiori crimini… vattene, purifica il mio regno…”).
La realizzazione del progetto di vendetta (“Rovescerò tutto, io, distruggerò”) è ormai inevitabile (“Avrò pace, io, soltanto se vedrò ogni cosa travolta insieme a me. Crolli tutto con me!”) e Seneca dimentica la tragedia di Euripide, nella quale Giasone è convinto delle sue azioni e disprezza Medea supplice, per contrapporre alla perversione della donna un eroe angosciato, preoccupato per la sorte dei figli (“Tanto li ama i suoi figli? Bene, lo tengo in pugno, ho trovato il punto vulnerabile”) e interprete della filosofia del tragediografo (“Frena il tuo cuore ardente, cerca di dominarlo. La calma addolcisce le sventure”).
La scena più potente è forse quella nella quale Medea trasforma i figli in strumento di morte (“Portino i miei figli questi doni alla sposa, ma bagnati, prima e impregnati di crudeli veleni”), ricorrendo alle arti malefiche (“Ogni mostro è invocato da Medea…. Evocati tutti i serpenti si dà a raccogliere in un mucchio i veleni delle piante letali…”), memore di mitologie di veleni (Nesso, il sangue dell’Idra e il fiele di Medusa) e di fuoco (Prometeo e Vulcano).
Il finale è crudelissimo: ormai Medea si aggira “come tigre del Gange”. Indemoniata (“Anche se li uccido tutti e due, è poco per il mio odio”), sceglie un supplizio lento e progressivo per esasperare la pena di Giasone, che anche di fronte alla magia (“Io sarò trasportata per l’aria da questo carro alato”) cerca di conservare la sua razionalità (“Sarai la prova vivente, dovunque arriverai, che gli dei non esistono”).
Bruno Elpis
http://www.qlibri.it/recensioni/arte-e-spettacolo/discussions/review/id:43820/