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Le recensioni di Bruno Elpis

Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller (qlibri)

Ipocrisia e inconsistenza di un sogno 

Dustin Hoffman

Nel più celebre dramma di Arthur Miller, in Willy Loman, anziano commesso viaggiatore, vengono rappresentate le ipocrisie del maccartismo e gli esiti fallimentari di una vita spesa per realizzare l’ossessione del successo e l’illusoria convinzione che la felicità materiale possa surrogare ogni altra forma di felicità. 

Dustin HoffmanIn apertura di dramma, il commesso viaggiatore (“Ha portato i prodotti di questa ditta nei posti più fuori mano”)  è reduce dall’ennesimo viaggio di un lavoro itinerante divenuto insostenibile (“Vuoi vedere che ha fracassato di nuovo la macchina?”): Willy è ormai incapace di far fronte a un ritmo non più appropriato all’età e alla fragilità psicologica  (“Non ci sta con la testa. Ferma al verde, passa al rosso…”) causata da tensioni familiari, stress e desideri irrealizzati (“E’ un fallito come Biff ma in un modo diverso perché non si è mai rassegnato a riconoscere la propria disfatta ed è quindi più confuso e ostinato, benché apparentemente più soddisfatto”).

Anche le speranze riposte nei due figli, Biff e Happy, sono andate deluse (“E’ questo il suo premio – voltarsi indietro a sessantatré anni e vedere i suoi figli, per cui ha dato la vita, uno – un donnaiolo vanesio…”): nessuno dei due ha raggiunto il successo economico, nessuno dei due ha coronato i sogni materialisti del padre. Entrambi, trentenni e inconcludenti, sembrano schiacciati dal peso delle aspettative genitoriali: Happy svolge un lavoro di basso profilo, mentre Biff (“… avrò fatto più di venti mestieri”) non ha realizzato le brillanti premesse di giocatore di football e oscilla tra un presente di ladruncolo (“Lui non è che una barchetta che cerca il suo porto”) e un sogno agreste (“…potrei comprarmi un bel ranch”).
La famiglia si coagula intorno a Willy in un estremo tentativo di riscatto: Biff promette che andrà a cercare un lavoro da un vecchio conoscente, Willy stesso si rivolge al suo principale per cercare di ottenere un lavoro fisso a New York, ma viene liquidato in malo modo e licenziato (“A uno che ha dedicato trentaquattro anni della sua vita a questa ditta…”). Willy subisce l’onta di elemosinare i soldi necessari per tirare avanti presso un caro amico, Charley.
Figli e padre si incontrano al termine della giornata in un ristorante e si confessano confusamente le rispettive sconfitte (“Papà! Io non valgo una cicca! E neanche tu, papà!”). I due giovani, anziché cenare con il padre, si allontano in compagnia di due donne allegre. Tra padre e figlio scoppia una lite furiosa (“Scorpione velenoso!”; “Per amor di Dio, perché non mi lasci andare? Perché non prendi quei sogni bugiardi e non li bruci prima che succeda qualcosa?”), preludio di tragedia.
Nel finale Willy si lascia travolgere dal proprio rimorso per aver tradito la fiducia di Biff (“Che successe a Boston, zio William?”) ponendolo di fronte all’evidenza dell’infedeltà coniugale e causando nel giovane una crisi irreversibile.
Chiusura tragica tra requiem, funerale nell’indifferenza dei conoscenti e  sospetto che Willy si sia suicidato per permettere alla famiglia di incassare il premio assicurativo sulla vita: proprio nel giorno in cui scade l’ultima rata del mutuo (“Ho pagato l’ultima rata della casa oggi. Oggi caro. E la casa è vuota.”)…

Il dramma ha avuto grande successo di pubblico, infinite repliche e due trasposizioni cinematografiche (nel 1951 con film di Laszlo Benedek e nel 1985 con un film che ha Dustin Hoffman come protagonista).
Nell’opera vi è una notevole confusione scenica tra passato e presente, con ricordi, che tornano e contaminano lo svolgimento dell’azione, proiettati dalla mente confusa del “commesso viaggiatore”. I riferimenti al consumismo (il frigorifero da sostituire, l’acquisto di un magnetofono che promette meraviglie…) e alle miserie della vita quotidiana (il tradimento, la rata incombente del mutuo, la vita che vale meno del premio assicurativo, il funerale andato deserto come quello del grande Gatsby!) acuiscono e ingigantiscono il senso di tristezza, vuoto e sconfitta che, tenendo in ostaggio il lettore/spettatore, lo inducono a riflettere sui valori veri della vita e sulla validità di un modello sociale fondato su esteriorità e prigionia…

Bruno Elpis

http://www.qlibri.it/recensioni/arte-e-spettacolo/discussions/review/id:38368/