Le recensioni di Bruno Elpis
Il commissario Ricciardi e “Vipera” di Maurizio De Giovanni (Malgradopoi)
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- Scritto da Bruno Elpis
Cercheremo di rispondere a una domanda: perché il commissario Ricciardi è così amato?
Lo faremo commentando l’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni: “Vipera”.
1) Ricciardi è il massimo consentito al “paranormal” nella letteratura gialla.
Perché il “paranormal” è soltanto accennato, non è incongruente, né tantomeno sconfina in dimensioni fantasy che irriterebbero il lettore di gialli, spesso alla ricerca di una razionalità che è principio-cardine irrinunciabile in un buon thriller. Al romanzo giallo l’appassionato del genere richiede di dare forma al mistero di un delitto, per comprendere moventi, cause e ragioni in un’operazione di ricerca che tanto assomiglia a quanto affrontiamo tutti i giorni – nel nostro piccolo - nella vita sociale e psichica.
Il “paranormal” si sostanzia unicamente nelle visioni di Ricciardi: che non possono essere banalmente attribuite a capacità divinatorie, ma rappresentano l’acutizzarsi di una sensibilità spiccata, in grado di avvertire nell’aria la presenza dell’inquietudine dei morti (“… fino a quando l’eco della sofferenza del vecchio si fosse finalmente dissolta nell’aria fresca della nuova primavera”). Al punto che la visione diviene quasi un metodo sul quale l’indagine conta: “Doveva entrare in contatto con l’atmosfera, con le emozioni sospese nell’aria”.
Così avviene anche in “Vipera”: “Gli giunse l’eco dell’ultimo pensiero di Vipera: Frustino, frustino. Il mio frustino.” E dunque l’indagine si svolge all’ombra di una rivelazione che è una sfumatura, un accenno: “Come un alito freddo, sentì la voce raschiante della ragazza, in piedi davanti allo specchio, che gli fece rizzare i peli sulla nuca: Frustino, frustino. Il mio frustino.”
Però attenzione, e qui sta il bello, la rivelazione è addirittura fuorviante per buona parte del romanzo: “Il fatto, come Ricciardi chiamava tra sé l’insieme delle sue percezioni, troppo spesso ingannava: forniva un riflesso, un’eco confusa dell’ultimo frammento di un’esistenza che si affacciava sul buio della morte guardandosi indietro.”
2) Ricciardi è serio, bello e impossibile. E anche un po’ dannato.
Ricciardi è un uomo serio, molto serio. Del postribolo ove lavorava Vipera dice: “Non sono posti per me”, suscitando così la reazione del collega medico legale: “Perché ci si diverte? Ma dove passi le serate, tu, al cimitero a chiacchierare con chi ci abita?”
Ricciardi dunque scherza poco: “Quindi, per te il bordello è un luogo di emancipazione, è così? E a queste ragazze che ci lavorano, non ci pensi?”
Mentre gli altri spesso scherzano su di lui: “Il monastico Ricciardi, il sacerdote massimo dell’automortificazione, l’uomo che non si diverte mai nemmeno per errore…”
Quanto alla dannazione, il commissario dagli occhi verdi ha quel tanto che basta per rinfrescare il mito del bel tenebroso: “Ha qualcosa, sì. Qualcosa nella testa, nell’anima, non lo so. Un segno, una specie di marchio, che lo costringe a stare da solo.”
3) Ricciardi è intelligente, intuitivo. E risolutivo.
Per gli uomini rappresenta un modello d’intelligenza pragmatica e finalizzata, di avvenenza spontanea e di fascino carismatico al quale tendere. Complessivamente inconcludente con le donne, suscita ammirazione più che invidia.
Per le donne è oscuro oggetto di desiderio. Come per Livia, la nobildonna romana. E anche per Enrica, la vicina di casa. “Entrambe lo amavano, forse. Ognuna a proprio modo. E lui? Che cosa sentiva lui … non riuscendo a guardare in faccia l’amore?”
Adorato e conteso dalle donne, alla fine è “res nullius” e quindi aperto territorio di conquista difficile se non impossibile.
Incapace di risolvere i propri dilemmi personali, è - all’opposto -terribilmente risolutivo ed efficace nella soluzione degli enigmi per via di un intuito eccezionale e fulmineo:
“Maione scoppiò a ridere.
Livia scoppiò a ridere.
Ricciardi capì chi aveva ucciso Vipera.”
Intuito e intelligenza sono tanto più importanti se si considera che Ricciardi opera negli anni trenta, quando le indagini ancora non potevano contare sui sofisticati mezzi oggi a disposizione della polizia scientifica.
Il caso da risolvere in “Vipera”
Scoppia nella settimana di Pasqua del 1932. Al “Paradiso. Era il casino più famoso della città, quello per i ricchi, le cui finestre oscurate si affacciavano sulla via del passeggio e sui negozi più cari, dal quale veniva la musica del pianoforte e il suono delle risate dei clienti…”
La vittima è lei: “Vipera è il nome con cui in tutta Napoli è conosciuta la migliore, la più bella delle ragazze che fanno il mestiere…”
“Pur nell’insulto della morte, il commissario intuì che Vipera doveva essere stata bellissima.”
L’omicidio avviene per soffocamento: “Teneva un cuscino sulla faccia. E non si muoveva.”
“Morta per soffocamento; setto nasale rotto, sanguinamento del labbro superiore e di quello inferiore per la pressione sui denti. Non ha fatto in tempo a chiamare nessuno.”
Una morte tristemente paradossale: “Una puttana uccisa con un ferro del mestiere, un cuscino.”
I principali sospettati sono l’ultima persona che l’ha vista viva (Giuseppe Coppola) e chi l’ha ritrovata morta (il commerciante di arredi sacri, Ventrone): due clienti tanto affezionati quanto particolari. Ancorché “nella stanza avrebbe potuto entrare chiunque …” e “un cuscino in faccia a tradimento non ha bisogno di grande forza, e le lesioni … sono compatibili con quelle inferte da una donna.”
Entrambi i sospettati principali hanno attinenza con la premonizione del commissario Ricciardi: Giuseppe per via del nomignolo (“A mio fratello tutti lo chiamano Peppe ‘a frusta”), Ventrone per la propensione al sado-maso nelle pratiche sessuali (“Quelli che hanno queste tendenze prima o poi qualcosa di sbagliato lo fanno, perché spostano il limite continuamente…”)
La Pasqua a Napoli
Le indagini si svolgono in pieno periodo pasquale, quando “… gran parte della popolazione” è “sospesa fra la ritualità della Passione e la preparazione della festa, con tutte le tradizioni gastronomiche che essa comportava.”
Ne derivano affreschi indimenticabili di una Napoli rumorosa e invasa dai suoni: quelli del “suonatore di fisarmonica cieco che ci vedeva benissimo…” (Ciccillo ‘o Cecato); “il lamento innocente degli agnelli e dei capretti da latte, il cui sacrificio sarebbe avvenuto di lì a poche ore tra le lacrime calde dei bambini…”; mentre “sugli stessi balconi frullavano le ali degli uccelli di san Giuseppe, con il loro canto bellissimo e disperato.”
Bruno Elpis
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