Le recensioni di Bruno Elpis
La collina del vento di Carmine Abate (Writers Magazine)
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- Scritto da Bruno Elpis
Il romanzo vincitore del Campiello, “La collina del vento” di Carmine Abate, racconta ‘vita, morte e miracoli’ di una famiglia calabrese: gli Arcuri, gente vigorosa e non allineata al regime fascista, con una salda cultura ricca di principi popolari (“La conferma di una verità antica quanto il mondo: l’unica cura della morte è una nuova nascita”), che fa dell’attaccamento alla propria terra una ragione di vita da difendere strenuamente.
Il rapporto carnale con la terra d’origine prorompe nella memorabile scena di un parto avvenuto sulla collina: “In quel minuto di sconcerto, lei aveva tagliato il cordone ombelicale con il falcetto, si era sdraiata sopra la sulla ….”
La storia segue – attraverso il racconto di Rino – le tappe di un’intera dinastia: i bisnonni, il minatore Alberto (“anche lui scavava, ma sottoterra, a volte usciva dalla galleria con la schiena rotta …”) e la moglie Sofia generano tre figli Arturo, Michele e Angelo.
Solo Arturo sopravvive alla prima grande guerra. Per cinque anni, in epoca fascista, viene confinato a Ventotene. Quando torna, scompare misteriosamente sulla collina durante la seconda guerra mondiale (per aver salvato e ospitato William, un pilota inglese precipitato con l’aereo sulla collina? Per il suo antifascismo? Per il suo spirito fiero e ribelle?).
Da Arturo e Lina nascono Michelangelo – maestro elementare (“Lui, che era stato il maestro di scuola più benvoluto a Spillace, il nostro paese, ora sembrava un bandito solitario, desideroso di radicarsi sul Rossarco come uno dei suoi ulivi secolari, la barba lunga e ispida, il vecchio fucile da caccia a tracolla … sospettando chissà quale agguato”) - e ‘Ninabella’, segretamente innamorata dell’aviere inglese e destinata alla pittura, che praticherà a Londra con l’aiuto di David, fratello di William.
La voce narrante, dicevamo, è il figlio di Michelangelo e di Marisa, archeologa ‘torinesia’ e anticonvenzionale: Arturo Cesare chiamato Rino per non scontentare nessuno dei due nonni.
“Era la storia della nostra famiglia … legata nel bene e nel male alla collina del Rossarco”.
I misteri della collina
Sono davvero tanti. Innanzitutto un doppio omicidio: “due uomini ammazzati fra il bosco di Tripeti e i ciliegi”.
Poi ci sono ripetuti ritrovamenti archeologici: un tesoretto di monete (“stateri, dioboli, didrammi, trioboli, pegasi, monete coniate tra il 510 e il 400 a.C.”) e oggetti antichi.
Misterioso, ma non troppo, è il desiderio del signorotto locale – nominato podestà in età fascista - di impossessarsi della collina (“i tentativi subdoli di don Lico per accaparrarsi il Rossarco con le cattive”).
In generale, “il Rossarco nascondeva insidie di ogni tipo: vipere velenose nell’erba o fra le pietre, calabroni e nidi di vespe, cinghiali e lupi famelici, buche nascoste dai rovi e … trappole preparate dai cacciatori di frodo.” Con un sospetto di fondo: “Altro che necropoli della mitica e mite Krimisa, questa collina è un sepolcro di segreti sanguinosi!”
Misteriosa è la sparizione di Arturo: “Erano passati sei anni dalla scomparsa di Arturo: in paese si parlava di lui come dell’ultima vittima del nazifascismo, le cui ossa andavano ricercate nella Timpalea, la timpa fusriosa del diavolo.”
Alla fine qualcuno esclama: “Forse è davvero la necropoli di Krimisa, forse è un campo di battaglia dei tempi di Annibale … Oppure è un cimitero della ‘ndrangheta.”
Il vento
Ma nel titolo, oltre alla collina, c’è anche il vento: “Il vento non smette mai di fiatare sulla collina, sale dalle timpe, dalla fiumara o dal mare, scuote le cime degli alberi, accarezza il cucuzzolo giorno e notte, ruzzola lungo i pendii come un bambino felice, ma quando si arrabbia sono guai …”
“Il vento ululava da lupo affamato …”
Finale alla Hitchcock
Ricordate “Marnie” di Alfred Hitchcock? Nel finale del film, il regista porta a galla tutto il rimosso. Lo stesso avviene anche in questo romanzo.
Michelangelo chiama il figlio Rino: “Vieni che la nostra collina sta franando.”
La collina è messa a dura prova: dalla speculazione edilizia per realizzare un villaggio turistico, dagli scavi archeologici, dal clima alluvionale (“Sì, ma stavolta il terremoto non c’entra, c’entrano quel taglio laggiù che ha indebolito il Rossarco, l’assenza di una boscaglia dalle radici forti, i continui scavi, il terreno friabile, franoso. C’entra questo diluvio universale che non si ricorda a memoria d’uomo”).
La collina si apre e vomita le sue verità, il velo di Maja si squarcia. Vengono a galla segreti.
Della famiglia Arcuri (“Mammasofì pianse ridendo o rise piangendo, si era liberata finalmente di quel segreto che l’aveva oppressa tutta la vita assieme al marito”).
Del passato sepolto.
Perché “la verità fa male ma non va sottaciuta, altrimenti il male si acutizza, diventa insopportabile.”
Lo stile narrativo
È armonizzato rispetto a fatti e luoghi raccontati. Nell’utilizzo dialettale del possessivo enclitico e nel ricorso a espressioni idiomatiche: “Sei tutto pàtreta, la vita te la insogni a tuo piacimento e dopo ti prendi le lignate sui denti”. Nell’impiego di espressioni popolari e colorite: “Se l’imbidia fussa guàllara, ne vidìvi guallarùsi!”
Davvero un bel romanzo, che ci regala un’immagine efficace della Calabria e della sua gente. Premio meritato, secondo …
… Bruno Elpis