Le recensioni di Bruno Elpis
Il gioco degli dei di Paolo Maurensig (i-libri)
- Dettagli
- Categoria: Recensioni
- Scritto da Bruno Elpis
Il gioco degli dei di Paolo Maurensig è il chaturanga (“Per il chaturaji, versione antichissima del chaturanga, servono quattro giocatori che si affrontano in coppia”), omologo orientale e progenitore dell’occidentale gioco degli scacchi (“Le torri diventano carri, e gli alfieri elefanti”).
Un inviato del Washington Post, alle soglie del conflitto che sta per scoppiare tra India e Pakistan, apprende che il leggendario Sultan Khan è ospite di una vicina missione.
In virtù del suo interesse per il gioco degli scacchi (“Da ragazzi, come tanti coetanei, ero stato un appassionato di scacchi e avevo i miei beniamini, Sultan Khan era tra tutti il preferito. Il fatto che provenisse dall’India misteriosa, viaggiando sotto la protezione di un autentico maharaja, non aveva fatto che alimentare la mia fantasia di adolescente”) e forse attratto dallo scandalo che ha coinvolto Sultan Khan (“Un impostore, un avventuriero senza scrupoli che avrebbe indotto un’ingenua vedova ottantenne a sposarlo, per poter mettere le mani sull’ingente patrimonio”), l’inviato lo scova ormai in fin di vita (“Un animo privo di doppiezza, incapace di mentire”) e lo convince a lasciarsi intervistare.
Nel racconto-ricordo la biografia del campione scorre avvincente nel romanzo che ripercorre l’infanzia dell’orfano Sultan, l’incontro con il maharaja (“Vorrei imparare a fondo il chaturanga”) che sarà suo mentore e mecenate (“Sir Umar Khan ha grandi progetti per te”), il viaggio in Gran Bretagna e le sfide (“Molti di loro, quando si rendevano conto di aver perso, mi avrebbero volentieri sparato un colpo a bruciapelo”) che lo proclameranno campione nazionale, la partita vittoriosa con il campione del mondo (“La celebre partita contro Capablanca”).
Nella narrazione emergono le differenze tra la mentalità indiana e quella occidentale, le inclinazioni culturali e la filosofia orientale che giustificano la scarsa ambizione (“Nonostante giocassi bene a scacchi, restavo pur sempre un suo servo”) e non consentono al talento di affermarsi sino in fondo, i pregiudizi del colonialismo europeo e l’orgoglio dei colonizzati (“Da quando il mio Paese aveva cominciato a nutrire chiare simpatie per il nascente nazionalsocialismo tedesco, ribellandosi sempre più all’impero britannico, la gente mi additava per strada”).
L’immobilismo sociale dell’induismo (“Appartenevo alla casta degli Shudra, dei servitori, dopo la quale veniva quella peggiore degli intoccabili”) congiura contro il promettente Sultan (“Ero uno scherzo della natura, un fenomeno da baraccone più che un autentico scacchista”): il maharaja rimpatria in India e affida il giovane a Lord Cleanwater, un nobiluomo britannico, che lo consegna alle cure del maggiordomo di Florence Hall (“Il ruolo di chauffeur… avevo un incarico preciso”).
Quando scoppia la seconda guerra mondiale, presso la residenza del Lord si affermano strani traffici dell’associazione I maestri della guerra, che incuriosiscono Sultan e che lo inducono a partecipare ai giochi di strategia bellica (“Ero anche un esperto del gioco della guerra più antico del mondo, il chaturanga… e chi era un profondo conoscitore di questo gioco poteva prevedere le sorti di qualsiasi battaglia”) che, in fondo, sono una trasposizione del gioco degli scacchi (“Quando si arrivò al punto cruciale del conflitto, e all’atteso sbarco in Europa delle truppe alleate… mi fu chiesto dove sarebbe avvenuta l’invasione… Puntai il dito su Calais”) anche nell’epilogo (“Mi piace pensare che… la mia errata indicazione abbia contribuito a salvare il mondo”).
Il bombardamento su Florence Hall, il ricovero in ospedale e le insidie post belliche inducono Sultan a emigrare in America. Da tassista, a New York, l’incontro con la miliardaria Cecilia Abbott (“Le raccontai persino della mia fuga in America ricercato dalla Società di parapsicologia, sotto cui si celava il controspionaggio britannico”) segnano il nuovo corso della vita di Sultan.
Il romanzo è un bell’affresco degli scontri culturali e di conflitti storici trasposti sul tavoliere dei giochi di strategia. La vita avventurosa di Sultan ripiega mestamente verso un destino ove karma (“Tutte le tecniche di yoga… sono… tentativi di spezzare il fascino inesorabile che Maya esercita sull’uomo. La sua attrazione è irresistibile, ci tiene legati alla materia, esistenza dopo esistenza, in una catena che è difficile spezzare”), miti indù e rassegnazione si fondono in modo poetico e riflessivo.
Bruno Elpis