Le recensioni di Bruno Elpis
Il mare dove non si tocca di Fabio Genovesi (i-libri)
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- Scritto da Bruno Elpis
Il mare dove non si toccaè fonte di angoscia per chi non sa nuotare, ed è il medesimo tormento che si prova quando sull’aereo si pensa al vuoto immenso che si spalanca sotto ai nostri piedi. Per mano di Fabio Genovesi ben conosce questo senso di disperazione Fabio, un bambino che vive in un nucleo isolato dal paese, il villaggio Mancini, con una caterva di zii dai nomi strani (Adelmo, Aramis, Athos, Arno…), tutti rigorosamente allitterati dall’iniziale A (“Per A come i loro genitori, che si chiamavano Arturo e Arrchilda”), al punto che il nonno di Fabio, anziché Rolando, “l’hanno chiamato Arolando”.
Questi zii stravaganti nel corpo (“Come mai quella strage di dita”), nella visione della vita (“Solo i maschi possono essere daltonici”) e nel temperamento anticonformista tendono ad assumere il ruolo supplente del padre (“Il babbo aveva una missione, e questa missione era aggiustare tutto quello che non funzionava”), l’adorato e silenziosamente adorante Giorgio (“Mi garba… guardare il mio figliolo che mangia tutto il gelato che vuole”), tanto più quando questi viene ricoverato in terapia intensiva in stato vegetativo per un grave trauma.
Il racconto dei riti personali (allevar lombrichi), familiari (guardare la TV e sostituirla con racconti di ricordi quando si rompe) e paesani (l’allestimento dei presepi rionali e la competizione per il più bello) sono uno spasso.
Altrettanto divertenti sono i testi che Fabio (“Avevo dieci anni ed ero il figlio del grande Giorgio, che era arrivato sul pianeta Terra con la missione di aggiustare tutto, e invece adesso stava lì fermo su un letto meno vivo dei fiori che gli mettevano sul comodino”), anche su suggerimento dell’amica Martina-Coccinella, scrive e legge al padre in ospedale per richiamarlo alla vita vigile (“Era solo il primo capitolo del manuale che scrivevo per lui”).
Il romanzo è disseminato di premonizioni infantili (“Se esiste un peccato grave, è non aver vissuto”), di verità viste attraverso occhi sinceri (“In tutto questo mondo che gira e traballa, la normalità è la stranezza più grande che ci sia”), di sentimenti incontaminati e profondi (“Quando ti senti solo davvero non è che ti mancano tante persone, te ne manca una, ma tanto”), narrate in modo credibile, con il linguaggio naïf e la mentalità vergine di un ragazzino nell’età della scuola dell’obbligo. In questo mondo e attraverso esperienze puerili, Fabio acquisisce consapevolezza del valore della diversità (“La mia cattiveria… mi ha insegnato come si smette di essere soli e diversi, come si fa a essere uguali agli altri, quanto è facile fare schifo come tutti quanti”) e declama la propria convinzione nell’estetica fiabesca della storia circolare:
“Perché ci sono cose che arrivano per fari ridere e altre per farti piangere, e altre ancora che sono così giganti da travolgere tutto, e tu voli via con loro e ridi e piangi insieme, e sventoli le mani a caso nell’aria piena di fulmini e tuoni, tuoni e fulmini, in braccio a una tempesta che si chiama felicità.”
Giudizio finale: da leggere, buon divertimento!
Bruno Elpis