Le recensioni di Bruno Elpis
Il paese delle nevi di Yasunari Kawabata (i-libri
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- Scritto da Bruno Elpis
“Il paese delle nevi” è spesso considerato il capolavoro di Yasunari Kawabata.
Sarà per via dei personaggi?
L’esteta Shimamura (“Il sentimento che provava per le montagne si era esteso fino a includere lei”), la bella Komako (“Era nata in questo paese delle nevi, ma era stata ingaggiata come geisha a Tokyo”) – così contrastata tra il sentimento, la professione di geisha intrapresa per necessità, la gelosia e la propensione all’autodistruzione alcolica -, Yoko, la giovane rivale dalla voce melodiosa, il figlio della maestra di canto, malato di tubercolosi intestinale (“Non dovete essere geloso di lui. Fra non molto sarà morto”)…
Sarà per via delle atmosfere velate (“L’armonia tra cielo e montagne era ormai smarrita”), allusive (“Il colore della sera era già caduto sulla vallata montana, ormai sepolta tra le ombre”) , indirette (“Siete sola come la femmina della volpe di notte, non è vero?”) e sensuali (“Nella luce lunare la delicata pelle di geisha aveva lo splendore di una conchiglia”), per una sorta di velo di Maya che il Maestro Kawabata getta sui tumulti di passioni e dolori?
Sarà per l’evocazione casuale di storie occidentali (“Komako, salite su nella Stanza delle Camelie”) pur nell’originalità autarchica dello scrittore (“Non abitate più nella camera dei bachi da seta?”)?
Sarà per via delle macchie di colore (“La luminosità della neve era più intensa, pareva ardere di un gelido fuoco. Contro di essa i capelli della donna assumevano un nero meno intenso, sfumanti in uno splendore violaceo”) che trasformano l’opera in una tavolozza di impressioni?
E ancora, per le splendide descrizioni di paesaggi (“Nel boschetto di cedri di fronte, le libellule si dondolavano in sciami innumerevoli come steli di bocche di leone al vento”) e atmosfere (“Le stelle, troppe per sembrare vere, si affacciavano al cielo con uno scintillio così vivo che parevano precipitare nel vuoto”)?
Per il contrasto tra il freddo del paese (“L’anno scorso si arrivò ai diciotto sotto zero”), ove la neve cade abbondante (“Quanta neve? In genere due metri… talvolta quattro o cinque…”), e i vapori caldi del centro termale (“Gli sci dei clienti dell’albergo … erano allineati ad asciugare e il debole odore di muffa era addolcito dal vapore. La neve … era caduta dai rami dei cedri sul tetto del bagno pubblico…”)?
Per la capacità di intravedere nella natura (“Il tutto diede a Shimamura l’idea di una tana di volpe o di tasso”) occasioni e connessioni narrative?
O forse è il senso della tragedia incombente (“Per qualche ragione Shimamura non riuscì a scorgere la morte in quella forma rigida. Egli sentiva piuttosto che Yoko aveva subito una trasformazione, una metamorfosi”) a incatenare chi – ammaliato (“Il suono di un samisen giunse da lontano”) e ipnotizzato dalle difficoltose traduzioni degli ideogrammi - si accosta a una sensibilità così raffinata, così orientale (“Il 14 febbraio era la «festa della caccia agli uccelli», una festa di bambini che esprimeva lo spirito più autentico di questo paese delle nevi”), così attenta alla purezza di tradizioni antiche (“Esiste la tela Chijmi perché esiste la neve”) e rituali (“L’albergo era pieno di clienti arrivati per vedere gli aceri”), inesorabilmente minacciate (“Era quindi naturale che egli fosse profondamente scontento sia per il decadere delle antiche tradizioni sia per l’attività di riformatori che cercavano soltanto il proprio tornaconto”), ma immacolate (“Egli mandava ancora i suoi kimono al paese di origine per la sbiancatura a neve”) come quella neve che ovatta suggestioni (“Il crepitio della neve che gelava sulla terra pareva rimbombare nelle sue profondità”) e asperità emotive (“Barcollò per ritrovare il suo equilibrio, il capo riverso, e la Via Lattea si precipitò dentro di lui con un ruggito”)…
Bruno Elpis