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Le recensioni di Bruno Elpis

La peste di Albert Camus (i-libri)

La peste” è forse il romanzo più complesso di Albert Camus: per le descrizioni inquietanti e scomode dell’epidemia, per l’allegoria di fondo che coniuga la pestilenza con la vita, per la struttura che assume di affidare la coralità recitativa delle testimonianze a un misterioso narratore. 

Possiamo idealmente suddividere l’opera in tre parti.

In quella introduttiva, a Orano (“Ma a Orano gli eccessi del clima, l’importanza degli affari che vi si trattano, il poco rilievo dell’ambiente, la rapidità del crepuscolo e il genere dei piaceri, tutto richiede la buona salute. Un malato vi si trova proprio solo”) i prodromi della malattia (“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo”) si intensificano e si fanno sempre più minacciosi (“Gli incidenti che si verificarono nella primavera di quell’anno e che furono… i primi segni della serie dei gravi avvenimenti di cui ora ci si propone di fare cronaca”), anche se inizialmente incontrano la resistenza di chi vuol sottacere il male (“È impossibile, tutti sanno che è scomparsa dall’Occidente”) per inerzia (“Pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”) o per opportunità (“Lei sa… che il distretto non ha il siero?”). La diagnosi diventa tuttavia inevitabile a pagina 50: “Si dichiari lo stato di peste. La città sia chiusa”. 

Il corpo centrale dell’opera, lungo e stagnante, si attarda (“E questa è un’idea che il narratore non condivide. Il male che è nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà può fare guai quanto la malvagità, se non è illuminata”) a declinare l’esplosione del flagello (“Dio… ha lasciato che il flagello vi visitasse come ha visitato tutte le città del peccato da che gli uomini hanno una storia”), la diffusione e la virulenza del morbo (“Ci fu anche una recrudescenza d’incendi”), l’evoluzione della patologia (“Una nuova forma dell’epidemia; la peste stava diventando polmonare”), le conseguenze sociali (“C’era nella sciagura una parte d’astratto e di irreale. Ma quando l’astratto comincia a ucciderti, bisogna ben occuparsi dell’astratto”), i riflessi (“Sì, la peste, come l’astratto, era monotona”) personali (“Per lottare contro l’astratto, bisogna un po’ somigliargli”) e psicologici (“Il dottor Rieux se ne accorgeva osservando sui suoi amici e su se stesso i progressi d’una curiosa indifferenza”) dello stato d’emergenza: l’isolamento (“La prima cosa che la peste recò ai nostri concittadini fu, insomma, l’esilio”) e la segregazione (“La nostra separazione era destinata a durare e… dovevamo cercare di venire a patti col tempo”), la prigionia forzata (“Nella nostra condizione di prigionieri, eravamo ridotti al nostro passato, e se anche alcuni di noi avevano la tentazione di vivere nel futuro, vi rinunciavano rapidamente”), le trasformazioni della città, delle abitudini (“Da mesi, ogni venerdì, il nostro teatro municipale risonava dei melodiosi lamenti di Orfeo e dei vani appelli di Euridice”), delle pratiche (“A proposito dei seppellimenti”) e delle tradizioni (“Il Natale di quell’anno fu la festa dell’Inferno piuttosto che del Vangelo”)… 

Le ultime cinquanta pagine premiano chi ha “sopportato” l’onere di indugiare su una premessa prolungata, che costituisce un prius necessario disseminato da riflessioni (“Ho capito questo, che tutti eravamo nella peste”), metafore (“Ciascuno la porta in sé, la peste… nessuno al mondo ne è immune”), paragoni (“Essere appestati è molto faticoso; ma è ancor più faticoso non volerlo essere”) e rivelazioni (“Ci sono sulla terra flagelli e vittime… bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello”) che trovano compimento nella parte finale.
Qui Camus scrive pagine memorabili sull’amicizia che si instaura tra due protagonisti, il medico Rieux e l’avventizio Tarrou (“Jean Tarrou… si era stabilito a Orano alcune settimane prima e alloggiava da allora in un grande albergo del centro”). “Il dottore… domandò se Tarrou avesse un’idea della strada da prendere per arrivare alla pace. «Sì, la simpatia»”. Il legame, cresciuto nella comune lotta contro la peste, viene consacrato con un bagno in mare (“Il mare ansava dolcemente ai piedi dei grandi blocchi del molo e … apparve spesso come un velluto, flessibile e liscio come una belva”) nella splendida prosa di Camus (“La calma respirazione del mare faceva nascere e sparire dei riflessi oleosi sulla superficie delle acque. Davanti a loro la notte era senza limiti. Rieux… indovinò sul viso calmo e greve dell’amico la stessa gioia che non dimenticava nulla, neanche l’assassinio”), grondante di esistenzialismo (“Durante alcuni minuti procedettero con la stessa cadenza e con lo stesso vigore, solitari, lontani dal mondo, finalmente liberati dalla città e dalla peste”).
In questa parte Camus tematizza altresì le proprie scelte metanarrative: rivelando l’identità del narratore (“La nostra cronaca volge alla fine. È tempo che il … confessi di essere l’autore”), al quale garantisce – oltre all’anonimato mantenuto sino al finale – terzietà (“Chiamato a testimoniare, in occasione di una sorta di delitto, egli si è attenuto a una certa riserva, come si conviene a un testimone di buona volontà”), obiettività (“Si è adoperato… a non prestare ai suoi compagni di peste pensieri che, in definitiva, essi non erano costretti a formulare”), equilibrio (“… Ha voluto farlo col ritegno desiderabile”), moralità (“Decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza….. e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”) e collegialità interpretativa. 

Mentre la peste recede (“Gli animali erano ricomparsi… rivelavano un regresso del contagio”), soltanto in minima parte  a opera dell’uomo (“Rieux pensò di sperimentare su di lui il siero di Castel”), la morte falcia le sue ultime vittime e per il medico Rieux viene il tempo di conclusioni empiriche (“Aveva soltanto guadagnato di aver conosciuto la peste e di ricordarsene, di aver conosciuto l’amicizia e di ricordarsene, di conoscere l’affetto e doversene ricordare un giorno. Quanto l’uomo poteva guadagnare, al gioco della peste e della vita, era la conoscenza e la memoria”) e valutazioni (“Come doveva esser duro vivere soltanto con quello che si sa e che si ricorda, e privi di quello che si spera”).
Nel mutato scenario, c’è chi dimentica in fretta (il giornalista Rambert, che ha sempre tentato di fuggire dalla città ammorbata, ha “l’aria di credere che la peste può venire e andarsene senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato”), ma c’è anche chi parteggia per la morte (“La sua vera colpa è di aver approvato nel suo cuore quello che faceva morire bambini e uomini”) e ne sente la mancanza: “Un pazzo spara sulla folla”. 

Bruno Elpis 

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