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Le recensioni di Bruno Elpis

L’occhio del leopardo di Henning Mankell (i-libri)

cover“L’occhio del leopardo” diHenning Mankell è un romanzo che idealmente congiunge il settentrione (Svezia) con il meridione (Zambia) del planisfero grazie al protagonista Hans Olofson che, giunto in Africa per inseguire un sogno, vi rimane per un ventennio, sperimentando sulla propria pelle difficoltà e contraddizioni insite nello scontro di mentalità e culture. 

La trama è un continuo viaggio narrativo di andata e ritorno tra i due poli geografici (“Quando oltrepassa i cancelli della fattoria, pensa a Karlsson delle uova… il mio vicino era un commerciante di uova, pensa. Se qualcuno mi avesse mai detto che un giorno avrei fatto il suo stesso lavoro in Africa, mi sarei messo a  ridere”): il paese natale e il paese adottivo. I ricordi del passato scandinavo si intrecciano con il presente, per esprimere un disagio ambivalente che coinvolge sia le origini, sia il soggiorno africano. 

Hans è segnato da un passato tragico: la madre si è allontanata da casa (“Di solito sono i padri a sparire, non le madri”) quando lui era ancora piccolo, lasciandolo con un padre ex marinaio (“Erik Olofson, un padre incomprensibile. Perché si è rimesso a bere proprio adesso?”) che annega nell’alcol i dispiaceri della vita attuale di boscaiolo abbandonato dalla moglie. Non bastasse questo precedente, Hans è altresì provato dall’incidente capitato all’amico Sture durante una sfida ingaggiata nella scalata del ponte sul fiume (“Ho sconfitto il ponte”) e dal suicidio dell’amante più matura di lui, “la donna senza naso”. Proprio per realizzare il sogno di quest’ultima (“Ma posso convivere con la mancanza di un sogno? Sono venuto in Africa per realizzare il sogno di un’altra persona che non c’è più”), Hans vola in Africa. 

L’impatto con il continente nero è duro (“Ho paura, pensa. L’Africa mi spaventa, con questo caldo, gli odori, la gente con le scarpe malridotte”): arretratezza, malattie e disordine assalgono il nuovo venuto; i bianchi, pur nel contatto quotidiano, vivono segmentati dalla popolazione locale (“Oggi il colonialismo è morto, dimenticato. Un’epoca che è diventata storia lascia sempre dietro di sé un pugno di persone in un tempo nuovo”), e sono temuti, invisi, non accettati. La reazione istintiva è quella di ripartire immediatamente, ma - di rinvio in rinvio - il rimpatrio viene sempre rimandato. Hans rileva una fattoria (“Perché non viene a lavorare da me? – gli propone Judith Fillington”) e lì si propone di realizzare un modello di cooperazione con i lavoranti del luogo. Le miti intenzioni vengono però disattese per l’ostilità culturale (“Noi abbiamo i nostri dèi. A loro non importa se non li preghiamo a mani giunte più volte al giorno. Parliamo con loro battendo i tamburi e ballando”) e per i mutamenti politici, mentre nel paese dilagano le violenze contro la minoranza bianca. 

Sullo sfondo della storia, si staglia la simbologia del leopardo: animale notturno, che non si fa mai vedere (“Da più di due anni non si sente più parlare del leopardo, nessuno ne ha più visti in giro”) mentre tende agguati e compie razzie (“Una sera, il leopardo fa la sua comparsa per la prima volta nella sua vita. Hanno trovato un vitello Braham dilaniato”). 

Nella narrativa scandinava ormai monopolizzata dai polizieschi, questo romanzo è una voce fuori dal coro, propone un’interessante riflessione sulle incompatibilità culturali di civiltà profondamente diverse e disegna un ritratto delle ferite aperte in territori ed etnie che vivono la difficile transizione da tradizioni ataviche verso modelli di progresso esogeni e importati dall’Europa, un continente sempre più vecchio, sempre più antico... 

Bruno Elpis 

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