Le interviste di Bruno Elpis
Cinque domande a Daniele Sannipoli
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- Scritto da Bruno Elpis
Abbiamo intervistato Daniele Sannipoli nell’occasione della pubblicazione di Antigone. Una riscrittura, Daimon Edizioni (clicca qui per leggere il nostro commento all’opera).
D – Il tuo Creonte è più eroe bipolare del XXI secolo, è più Caligola di Camus oppure…?
R – Creonte è forse il personaggio che più incarna il senso della mia riscrittura o che per lo meno ne coglie la chiave esistenzialista. La sua scissione, segnalata da diversi attributi (“smembrato”, “scisso”) e il suo ingresso in scena di fronte a uno specchio in cui non sa riconoscersi, vogliono rappresentare il dolore profondo da cui scaturisce il comportamento frantumato e assurdo del personaggio. Creonte ha perduto un amore e ci ricorda che a volte può bastare il dolore per far ammalare le persone. In lui c’è certo molto del Caligola di Camus, ma rispetto a questi riesce a trovare, sul fondo oscuro delle sue azioni, non certo la pace, ma sicuramente la consapevolezza: Caligola recita fino alla fine la commedia terribile della sua vita, Creonte alla fine smette di recitare e per questo non può più vivere. In fondo Creonte è sì, per dirla con Nietzsche, “umano, troppo umano”, instabile certo, delirante a tratti, ma più di tutto si presenta come un uomo ferito che non riesce a ricomporre la vita.
D - “Un’altra scelta è quella di rappresentare la violenza sulla scena, pratica del tutto estranea al teatro greco, che anzi della violenza mostra le conseguenze, mai l’azione”. Cosa implica questa scelta sul tuo piano emotivo? E su quello dello spettatore?
R – Personalmente sono particolarmente sensibile alla violenza, in tutte le sue forme, per questo la scelta di introdurre episodi truculenti è stata molto ponderata. Penso che sulla scena si possa rappresentare ogni cosa se c’è la giusta motivazione e in questo caso la violenza è indispensabile per segnare lo scarto rispetto all’originale: non viviamo più in un mondo rassicurante, cartesiano, ma siamo figli di un cielo muto, smaltato, spesso indifferente, in cui la violenza è l’ultimo rifugio per non perdere definitivamente se stessi. Lo spettatore che assiste alla violenza può scegliere due strade: chiudere gli occhi e pensare che sia impossibile oppure fissare negli occhi la Medusa col rischio di restare pietrificati. In questo l’opera pone lo spettatore di fronte a lati oscuri, ferini, forse nauseanti, ma io credo che la realtà in questo sia più vera del teatro e che chiudere gli occhi può solo alimentare questo dominio feroce della violenza.
D- Cosa prova il drammaturgo a cambiare le sorti di un personaggio (ndr: Euridice)? Vogliamo dare al lettore una chiave interpretativa di questa scelta?
R – Riscrivere un’opera così celebre impone allo scrittore un attento lavoro di valutazioni, ma in fondo il mito è universale, il teatro di Sofocle è particolare e dunque c’è sempre un certo grado di libertà di cui ci si può avvalere. In Sofocle Euridice si suicida dopo aver saputo della morte del figlio, è la storia del dolore di una madre che perde quanto più ama. Nella mia “Antigone”, invece, Euridice è la vittima di un altro dolore, quello atroce di Creonte: in lei il re vorrebbe trovare quello che non è più, lei vorrebbe ritrovare nel marito quello che è stato, ma sono due orizzonti impossibili da ritrovare e due spazi impossibili da conciliare. Il dramma di Creonte ed Euridice è quello dell’incomunicabilità del dolore, della solitudine nonostante tutto: non è la storia universale della madre che ha perso il figlio, ma quella contemporanea di due voci che non si sentono.
D – Hai mai fatto una professione d’amore come quella di Emone nell’atto secondo, scena prima?
R – Vorrei rispondere di sì, ma non posso dire di avere la stessa attitudine di Emone (ride). La sua dichiarazione d’amore ad Antigone, così appassionata, legata da tante “e” ripetute, è davvero l’espressione di un sentimento puro e sincero. Da questo punto di vista temo di essere più simile ad Antigone che a Emone: ho un forte senso dei princìpi morali, a volte forse troppo, e in fondo ho intravisto nella sua parabola alcune delle possibili e durissime conseguenze del rigore troppo inflessibile. Eppure, come scrive Camus, “non essere amati è una semplice sfortuna, la vera disgrazia è non amare”: in questo sia Emone sia Antigone si salvano, il primo perché ama lei, la seconda perché ama l’umanità intera: sono i due estremi di uno stesso sentimento. In ogni caso tra i miei propositi futuri c’è quello di “emonizzarmi” almeno un pochino ahah…
D – Hai un progetto per la rappresentazione di quest’opera a teatro? La prossima opera teatrale che scriverai sarà ispirata ancora alla classicità o hai in mente qualcosa di diverso?
R – Mi piacerebbe molto trovare modo e mezzi per vedere rappresentata “Antigone”: il teatro è bello da leggere, ma è ancora più emozionate se recitato. Non a caso ho lasciato anche parche indicazioni sceniche, molto semplici e realizzabili anche con pochi mezzi, proprio per permettere una messa in scena essenziale, ma ben calibrata. Non penso servano grossi effetti speciali per parlare al pubblico. Ora serve solo trovare la giusta compagnia!
Per il secondo punto, sì, sto scrivendo la scaletta per una seconda opera teatrale: non sarà ispirata a un’opera classica, ma i personaggi sulla scena saranno idealmente quattro note autrici del Novecento che ho intenzione di far scontrare sulla vita e sulla morte. Sto immaginando un atto unico al femminile. Per ora so soltanto che “A è morto” e che nessuna di loro riesce più a vivere in pace.
Tra le autrici non ci sarà, per puro caso, Sarah Kane? Posso azzardare anche il nome di Virginia Woolf?
Bruno Elpis
http://www.i-libri.com/scrittori/cinque-domande-a-daniele-sannipoli/