Le interviste di Bruno Elpis
Cinque domande a Ilaria Tuti
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- Scritto da Bruno Elpis
D - Abbiamo dialogato con Ilaria Tuti in occasione del Gran Giallo Città di Cattolica. La ritroviamo oggi autrice di successo con un esordio scoppiettante. Quali sono i sentimenti che ti hanno accompagnato in questa avventura? Che impatto ha avuto sulla tua vita l’attenzione che ti è stata riservata dal pubblico?
Quando da Longanesi mi hanno comunicato l’intenzione di pubblicare il romanzo, nei giorni seguenti sono stata accompagnata da un unico pensiero: speriamo che non cambino idea! Questo per farvi capire quanto riuscissi a crederci.
L’entusiasmo si è accompagnato da subito a un certo timore: timore di non essere in grado di farcela, di ritrovarmi sotto la lente di ingrandimento di molti, di essere parte, da un giorno all’altro, di un mondo che non conoscevo e che era molto distante dalla mia quotidianità. La paura, però, ha lasciato spazio quasi subito a una gioia immensa. È qualcosa di molto intimo, che attiene ai sogni più cari, quelli da cui dipende la felicità vera, la realizzazione e il compimento di una vita.
Vita che è cambiata, si è fatta certo più complicata, ma anche più piena (di valori, di stimoli, di esperienze, di incontri, di gratificazioni). L’attenzione che di colpo si è riversata su di me è stata destabilizzante, perché per natura sono riservata e solitaria, ma mi ha fatto crescere, imparare cose nuove, mi ha messo alla prova. Mi ha dato l’opportunità straordinaria di creare un ponte con i lettori, così ho modo di “sentire” le emozioni che “Fiori sopra l’inferno” ha dato loro.
D - “Fiori sopra l’inferno” si connota per uno spiccato interesse per la criminologia (“La prima è la fase aurorale… La fase puntamento… La terza fase sarebbe quella chiamata di seduzione… la cattura… l’aggressione. L’ultima è la fase totemica: l’assassino cerca di protrarre il più a lungo possibile il piacere”) alla ricerca delle cause profonde di un dolore che accomuna investigatore e ricercato, bambini e adulti, uomini e animali, con un sottofondo di compassione (intesa in senso etimologico). Che origine ha questo interesse?
R - Racconto storie e nella mia testa ho iniziato a farlo molto prima di scrivere i miei primi racconti. Se vuoi raccontare storie devi essere curioso nei confronti della vita e delle persone. Mi interesso agli altri, mi chiedo sempre quale sia la loro storia, da che passato siano stati forgiati, che futuro stiano immaginando e quali passioni li muovano.
La criminologia è una luce potente a nostra disposizione per illuminare le zone più buie e misteriose della mente umana, che è ancora un universo quasi sconosciuto. Mi sono appassionata alla psicologia criminale leggendo i romanzi di Carrisi. È diventata anche una mia passione ed è il motivo per il quale amo scrivere thriller: tra le righe, indago la vita e l’essere umano, i suoi abissi come le vette che può raggiungere.
D - Tra i temi principali e le caratteristiche di “Fiori sopra l’inferno”, l’effetto cromatico delle descrizioni è una cifra del tuo stile: giochi molto sul contrasto bianco-rosso (“Lacrime purpuree scendevano lungo l’intonaco e raggiungevano la neve”) e la neve macchiata dal sangue è un contrasto ricorrente… È una tendenza che deriva dalla tua vocazione artistica anche per le arti figurative?
R - Sì, ho cercato di dipingere con le parole e per farlo ho usato anche tecniche pittoriche: l’alternanza dei colori freddi a quelli caldi per creare contrasti drammatici ma anche tridimensionalità, l’uso delle ombre e delle luci per disegnare quasi a “sbalzo” il paesaggio e i personaggi, l’opposizione tra un colore primario e il suo complementare (il rosso del sangue e il verde del sottobosco) per appagare l’occhio del lettore… Per me è naturale riprodurre con le parole una scena (un quadro) che ho già in mente.
D - Per tua stessa ammissione finale, la natura dei luoghi non è soltanto teatro delle vicende o sfondo: è tessuto vitale (“La foresta millenaria di Travenì risuonava di gocciolii d’acqua e fruscii sommessi, quelli provocati dalla neve che scivolava dalle fronde troppo cariche…”), sorprendente (“La neve aveva cambiato il volto dell’orrido dello Sliva. La gola in cui scorreva il torrente era diventata un regno di ghiaccio”), dolomitico e sfidante il limite (“I laghi gemelli di Flais e poi il confine”). Qual è il tuo rapporto con natura e paesaggio friulano?
R - È un amore riscoperto in età adulta, ma che è nato nella mia infanzia. Ho descritto luoghi reali, che mio padre amava molto e che hanno fatto da sfondo a molti episodi felici di quando ero bambina. Ora che sono adulta mi sono riavvicinata a questi paesaggi e li guardo con il senso di meraviglia di quando ero piccola. La natura è potente, è un cuore pulsante, è mistero che ci circonda. Ho sentito l’esigenza di trasmettere al lettore la mia fascinazione, il legame profondo che sento con la mia terra. Spero di esserci riuscita.
D - Nel romanzo c’è poi una sorta di attrazione per l’essenzialità primitiva, che viene ricercata sia nell’uomo (“Echi di culti della fertilità pagani… Secondo la leggenda, la notte di San Nicola i Krampus vagavano alla ricerca dei bambini cattivi”), sia nella natura, sia nel riferimento culturale al “mana”: è indice di pessimismo, desiderio di ritorno alle origini, o che altro?
R - È quanto di più lontano dal pessimismo: è forza, potenza, energia primigenia. È un invito a riscoprire ciò che in noi è ancora intatto e puro. Il “mana” è la forza creatrice, vitale. Sondare le origini – anche nel senso di lato più istintivo e meno addomesticato – non significa fare un passo indietro, ma scoprirsi più forti: quando le radici affondano in profondità, siamo più saldi.
Significa conoscersi, accettarsi, convogliare le energie in un processo creativo e costruttivo. Siamo qui per lasciare qualcosa e quel qualcosa non può reggersi in piedi se le fondamenta non sono solide. Paradossalmente, è proprio la parte più legata alla sua natura a elevare l’essere umano spiritualmente, a fargli desiderare l’”infinito”.
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Foto credits: Beatrice Mancini