Fatti e libri, rubrica di Bruno Elpis
La pena di morte e “Il miglio verde” di Stephen King
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- Categoria: Fatti e Libri
- Scritto da Bruno Elpis
Un articolo intitolato La pena di morte nel 2012: fatti e cifre è un autentico bollettino di guerra. La pena capitale viene ancora inflitta in ventuno paesi, alcuni dei quali sono etichettati come ‘superpotenze’. Del resto, si sa, la realtà supera sempre la letteratura: anche quella dell’orrore.
E così ci deve pensare The King - colui che alternativamente viene designato come “mago del brivido” o “re del terrore” o “genio del macabro” - a proporre una riflessione sullo spirito giustizialista che, dopo tanto secoli di storia, anima ancora l’uomo.
“Il miglio verde” narra fatti di fantasia collocati nel “1932, quando il penitenziario di stato si trovava ancora a Cold Mountain. E là c’era naturalmente la sedia elettrica”. Alla quale vengono dati nomignoli tanto affettuosi quanto macabri: “La chiamavano Old Sparky, come dire la Scintillante, o Big Juicy, la Scaricona”.
Nel carcere di sicurezza, il braccio della morte si chiama “Miglio verde” (“L’ampio corridoio che percorreva al centro tutto il blocco E era rivestito di linoleum del colore della buccia di un vecchio lime appassito, perciò quello che nelle altre carceri veniva chiamato ‘l’ultimo miglio’, a Cold Mountain, si chiamava il miglio verde”).
Attraverso le gesta di Paul Edgecombe (“Ero l’aguzzino capintesta al blocco E del penitenziario di Could Mountain”) e degli altri secondini, il percorso finale di assassini che si sono macchiati di orrendi delitti viene raccontato anche per mettere in risalto le contraddizioni di una pratica barbara.
La prima contraddizione risiede nella stessa pena capitale: “Old Sparky mi appare un tale ordigno di perversità … una così micidiale invenzione della follia. Fragili come vetro soffiato, siamo noi, anche nelle migliori condizioni. Ammazzarci l’un l’altro con il gas e l’elettricità e a sangue freddo? Che follia. Che orrore”.
Anche il ruolo degli attori, a pensarci un istante, mette i brividi. Così il capo degli agenti non viene mai chiamato “il boia”, ma ammette: “Io ne ho giustiziati settantasette, più di quanti ne abbiano singolarmente uccisi quelli a cui ho stretto la cinghia sulla sedia, più di quanti siano stati accreditati al sergente York nella prima guerra mondiale”.
E che dire del medico che assiste alle esecuzioni? Difficile stabilire “cos’era giusto per un dottore in medicina e che cosa era invece un’interpretazione perversa dello speciale giuramento che prestavano, quello per cui promettevano prima di tutto di non fare del male”
Un altro contrasto esplode nei desideri dei condannati: “Nelle ultime quarantott’ore, promettigli qualunque cosa”.
Ma la peggior incongruenza, forse, sta nel rischio di giustiziare un innocente come l’acluofobo/nictofobo John Coffey (“dai cui occhi sgorgavano lacrime costantemente, come sangue da una ferita che non si può rimarginare”), un gigante nero che ha paura del buio (“Resta qualche luce accesa dopo il silenzio? … Perché certe volte al buio ho paura … se sono in un posto che non conosco”) e vede la morte come liberazione: “Non ne posso più della gente cattiva che si fa del male. Per me è come cocci di vetro piantati nella testa … Non ne posso più di stare al buio. Soprattutto è il dolore. Ce n’è troppo”.
Bruno Elpis
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